L’Africa che si sta annunciando
Il modo di parlare di una cultura determina certamente la relazione che ne nasce con il resto del mondo e l’Africa ne soffre in modo particolare. Saïd Abass Ahmed è il direttore di Thinking Africa – Institut de recherche et d’enseignement sur la paix en Afrique; vi lavorano ricercatori ed esperti in diverse discipline con lo scopo di offrire ai governi africani, alla società civile e a ogni genere di organizzazione sociale, analisi e formazione per poter realizzare la pace nel Continente.
Per capire qualcosa di più di quanto sta accadendo, occorre, in primo luogo, demolire il modo con cui si parla dell’Africa in Europa. È di tutta evidenza che l’Africa è un paese immenso e che, pertanto, si dovrebbe più correttamente parlare di “afriche”. Ma la muticulturalità africana viene spesso bollata come barbarie, come retaggio di tradizioni selvagge e di istituzioni civili primitive. Ahmed ricorda innanzitutto la grande sofferenza che esiste in Africa e, al contempo, la sua grande urgenza epistemica. Il problema centrale, a suo parere, sta nel poter riscrivere l’appartenenza dei popoli africani nel contesto mondiale. Il clamore che si sta facendo circa l’emigrazione verso l’Occidente è strumentale perché la verità è che, rispetto ai grandi movimenti di persone entro il continente, solo una percentuale tra il 2 e il 5% si dirige in Europa. Inoltre prima delle urgenze economiche e di sviluppo, agli africani va restituita la fierezza della propria appartenenza perché si rischia che i giovani pensino di loro stessi ciò che si legge sui giornali europei. “Vogliamo poter dire cosa vogliamo diventare e anche dire come vogliamo farlo (…) non siamo come voi volete che siamo, questo uccide ogni nostra proiezione sul futuro”. Esiste un progetto che intende riappropriarsi delle conoscenze specifiche di quei popoli, conoscenze da condividere con il resto del mondo così da poter costruire, uniti, nuovi contesti sociali e istituzionali. Fa parte di tale progetto un ripensamento delle politiche africane rivolto a creare infrastrutture, rivedere l’urbanizzazione fuori dalle immense metropoli, elaborare piani sanitari e educativi. La cosa potrebbe avere un futuro se cominciasse a circolare l’idea di un unico pianeta nel quale riparare ciò che si è violentato con la colonizzazione; non solo riconoscere la predazione delle risorse economiche e porvi fine, ma capire che non si paga con il misero denaro che si mette a disposizione nei progetti di cooperazione il dolore del passato. “Abbiamo bisogno che mi si tenda la mano e mi si chieda perdono e io pure lo faccia moltiplicando gli spazi di dialogo che ho visto qui al Tonalestate per lenire le ferite e incamminarsi verso il futuro comune”.