Non princìpi primi, ma nomi propri
Si può riconoscere lo stesso timbro della gratuità e del dono di sé (di cui abbiamo detto per la lectio del cardinale Menichelli), seppur con diverso linguaggio, negli interventi di Carmelo Dotolo il 6 agosto e di Jean Fermon l’8 successivo.
Carmelo Dotolo si sofferma in premessa su un aspetto preoccupante quanto indicativo dei segni del tempi: viviamo in una società della gratificazione immediata, dell’erba voglio” che tuttavia non va asetticamente guardata ma affrontata per trasformarla. Questo principio, che già si ritrova nell’XI tesi marxiana su Feuerbach, ha per un cristiano un connotato non unicamente pragmatico ma suggerisce piuttosto la ripresa di responsabilità per il futuro dell’uomo. Una lotta necessaria, che nasce da una antropologia non individualista ma rivolta al riconoscimento delle identità e, insieme, all’altro da sé. Nessuno contesta il valore della dignità umana, ma quale ne è il livello? Per parlare di dignità, secondo Dotolo, vi sono due aspetti inscindibili e irrinunciabili: la concezione della creaturalità, cioè della dipendenza da Chi ci fa continuamente, e della fraternità. E’ una sfida su se stessi e sulla relazione tra noi. Solidarietà che è valorizzazione dell’altro e accoglienza di colui che è nel bisogno; nuovo ordine del rapporto diritto-dovere, prospettiva di fraternità come luogo di inveramento della responsabilità verso l’altro. Tu, noi,voi che incontro e che non posso determinare, di cui sono responsabile. “Al principio della solidarietà appartiene quel processo di liberazione del mondo e della storia che inaugura il dinamismo della responsabilità e riconciliazione, in grado di resistere alle lusinghe della negazione, del male, della rassegnazione”. L’esperienza cristiana vive dell’avvenimento della Resurrezione in cui il male è stato dichiarato superabile, il limite umano può non essere barriera ma condizione di necessità entro cui dare la vita per sé e per l’altro da sé. Il compito di impegnare la vita è cammino di trasformazione della realtà e certezza di futuro.
Jean Fermon è uno degli avvocati europei più attivi nella difesa dei diritti umani. Fa parte dell’Associazione dei giuristi progressisti che lotta per i popoli che vengono privati dei loro diritti. Una delle sue battaglie più recenti è stato il “processo Eternit” che ha visto coinvolti diversi Paesi a causa delle devastanti conseguenze dell’inalazione della polvere di amianto.
Esordisce immediatamente dicendo che il diritto dell’uomo è legato strettamente al diritto dei popoli. Parliamo di diritto alla salute, a un ambiente sicuro, alle cure, al lavoro, alla scolarità..diritti umani. Nessuno li nega. Chiediamoci: il consenso non è diventato progressivamente privo di contenuto? Guantanamo, con le sue torture, esiste perché l’Occidente sia più sicuro? Interi Paesi sono stati distrutti, popoli cancellati per la “difesa dei nostri diritti umani”. Fermon ci definisce mercanti di equilibri dei diritti umani: mettiamo su una bilancia interessi e decidiamo della vita degli uni contro gli altri. Perché siamo a questo punto? Perché la Dichiarazione universale, la Carta dell’Onu, le Costituzioni le adoriamo a condizione di non metterle in pratica. Fermon ricorda essere la collettività, il popolo, l’attore della realizzazione dei propri diritti, perciò richiama a una ripresa di responsabilità individuale (nelle professioni, negli interessi culturali, nella fede religiosa e in quella civile) e collettiva come è stato fatto per abbattere il fascismo e il nazismo. L’eredità che ci è stata lasciata da quelle lotte è compito di solidarietà e responsabilità gli uni per gli altri, gli uni con gli altri.