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ANDARE A SCUOLA IN… Giappone

12 Agosto 2018 Nessun Commento

Angela Volpe, docente alla facoltà di Global Liberal Studies dell’Università Nanzan di Nagoya (8000 studenti), interviene nelle giornate in cui nel “suo” Paese si ripete la memoria di Hiroshima e Nagasaki, che hanno segnato la tragedia delle quasi duecentomila vittime solo dei primi giorni, e la distruzione pressochè totale della società e dello Stato nipponico. Il Giappone già nel 1947 vara le prime leggi sull’educazione. Ricomincia dalla scuola affermando che lo scopo dell’educazione è la formazione della persona (jinkaku no kansei).

La professoressa Volpe vive in Giappone da venticinque anni, quasi interamente dedicati all’insegnamento oltre che alla ricerca sulla storia e la cultura di questo popolo che è diventato il suo. Oggi è sicura nell’affermare che il sistema scolastico si sta sempre più trasformando in un meccanismo altamente competitivo che anziché aiutare i giovani a sviluppare le proprie potenzialità e libertà, impone loro finalità, valori e modalità dell’uso di un sapere soltanto nozionistico rimandanti allo Stato stesso. Sono previsti esami di ammissione alla scuola perfino per i bambini di cinque anni e vengono incentivati, con grandi finanziamenti alle università, progetti nel settore militare. Una mentalità di concorrenza impone prestazioni scolastiche sempre più alte per non essere scartati e produce, tragicamente, un numero altissimo di suicidi e di malattie psichiche.

Che ci faccio in tale panorama?” è la domanda con la quale Angela racconta la propria esperienza professionale ed educativa con migliaia di giovani (ne stima almeno ventimila) non solo nelle aule universitarie. I suoi corsi sono anche “religioni e civiltà” e “educazione e dignità umana”. La propria vicinanza ai ragazzi l’ha portata a proporre loro luoghi di amicizia che li sostenessero nelle domande sulla propria vita, sul senso dello studio, sulle decisioni per il futuro, a guardare alla realtà con sguardo critico.
Oggi, al campus della Nanzan, esiste una realtà di giovani che si è voluta chiamare “The Others”: un movimento studentesco che è presente anche in Italia, America Centrale e Francia. Un’amicizia che accoglie l’altro così com’è e opera in forza di tale fondamento che permette di sperare e affrontare l’orrore del mondo, tentando un lavoro per renderlo meno disumano. Fanno incontri settimanali su temi della vita personale o su problemi nazionali e internazionali; non c’è un’idea a priori ma la proposta di una serietà rispetto alle domande di ognuno che porti ad affrontare la realtà che ci è destinata. Organizzano workshop cui partecipano studenti giapponesi, cinesi, taiwanesi, tailandesi, italiani che sono cristiani, buddisti, confuciani, atei mussulmani. Fanno esperienza di condivisione in case di riposo e in realtà di disagio.
“Ho imparato che la vita è compagnia, del Mistero all’uomo e dell’uomo all’altro uomo. Di conseguenza, educare è accompagnare. Il rapporto tra maestro e allievo si basa sulla conoscenza della comune origine, della comunione originaria e costitutiva dell’essere. Se c’è un’umanità in me, essa non può essere qualcosa che vale soltanto per me; essa vale per “noi”; la mia umanità è la “nostra umanità”. Ecco allora che nel lavoro educativo si può arrivare fino alla passione e all’amore. Non sono le tecniche che creano l’educazione o l’amore, ma è la passione di chi educa”.

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