Tra il dire e il fare c’è di mezzo l’altro
Eletta Leoni, responsabile del Centro studi, ha accolto un pubblico attento e numeroso di giovani e di turisti in questa promettente mattinata di apertura del Tonalestate 2017 prospettando una razionalità aperta e obbligata a trascendere ciò che provvisoriamente raggiunge.
“Stanco di chi non offre che parole, parole senza lingua, sono andato all’isola coperta di neve” dice un poema di Thomas Tranströmer. E davvero verrebbe voglia di farlo come ne aveva voglia Pavese e ben lo dice in quella frase che accompagna i nostri giorni del Tonalestate: “almeno potercene andare,/ far la libera fame, rispondere no/ a una vita che adopera amore e pietà,/ la famiglia, il pezzetto di terra, a legarci le mani”. L’uomo del nostro tempo, non possiamo purtroppo negarlo, sembra essersi inconsciamente o nascostamente innamorato delle tragedie, delle cattive notizie, degli avvenimenti tristi, infausti e negativi, delle malattie e del maltempo. E, nei rapporti con gli altri ha acquisito un’arte speciale, anche quando sembra parlarne bene, nell’ingigantirne i difetti, i limiti, le colpe, i problemi e le cadute. Li insegue, li ascolta, li fa propri e li trasmette ornandoli di tutti i dettagli con cui la sua fantasiosa arte del tessere riesce a ricamarli. Se un giorno non succedesse, per caso, nulla di increscioso o il cattivo non fosse, quel giorno, tanto cattivo o non si riuscisse proprio a individuare il più piccolo male, l’uomo del nostro tempo va a rimuginare i mali passati o ne costruisce di futuri: è lo strano mestiere del sarto che solo scuce e torna a scucire gli abiti, invece di applicarli a cucirli per bene. Questo strano mestiere non è “esercizio della coscienza critica”, far questo solo distorsiona la capacità di ascolto come la capacità di vedere e di toccare, cioè distorsiona le premesse indispensabili per un’arte che sia degna di chiamarsi arte di pensare e di giudicare. Stando così le cose, abbiamo bisogno di una vera e propria “rivoluzione copernicana” (dice Peter Sloterdijk) nel modo di pensare, cioè di guardare e di giudicare, di imparare, di studiare e di conoscere, una rivoluzione copernicana nel nostro cuore, nel nostro cervello, nella nostra mente come nei nostri occhi.
La mattinata di oggi ha per titolo: tra il dire e il fare c’è di mezzo l’altro. E’ un titolo che è la parafrasi di un proverbio che dice: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Questo mare ha dunque per nome: l’altro. “Accade ma solo raramente, che uno di noi veda veramente l’altro”, dice ancora una poesia di Thomas Tranströmer. L’altro, anch’esso enigmatico, immenso, magari conosciuto eppure sempre nuovo e imprevedibile come il mare; l’altro è “un’intimo paradosso” ed è di uguale natura alla mia e alla tua, la natura di tutti coloro che dalla spiaggia del dire desideriamo passare all’altra sponda, là dove è possibile edificare. Ed è proprio l’altro che permette alle nostre utopie o alle nostre eventuali astrazioni o ai nostri sogni di prendere un volto umano che, come ogni volto d’uomo, è carico di difetti, difetti però tutti teneramente umani. Ed è l’altro a spingerci ad attraversare il mare dell’esistenza e a farci smettere di andare a nasconderci su quell’isola coperta di neve.
Come già dicemmo lo scorso anno, l’imperfetto è il nostro paradiso. Come affrontare dunque i difetti, le malvagità, le incostanze, i tradimenti di questo enigmatico mistero che è l’altro? Cominciando almeno a intuire che c’è un motivo utile e buono per cui l’altro esiste ed è com’è. Questo è la prima rivoluzione necessaria, se vogliamo che il pensare diventi un’arte capace di trasportarci sulla riva dove si edifica. Semplicemente, smettere di guardare l’altro per giudicarlo in bene o in male, guardare all’altro invece come il compagno di un viaggio che entrambi dobbiamo fare. Insieme scopriremo ciò che deve essere denunciato; insieme scopriremo ciò che deve essere valorizzato.
“Chi aspetto? Un amico? Perchè non arriva? Perché è già qui”: è sempre un poema di Thomas Tranströmer a dircelo: e questa è la vera coscienza critica. L’amico è già qui anche se “infuria la notte” e “la cabina cade sotto gli zoccoli del diluvio”; dentro di noi è custodita e desidera emergere “la gioia” di un’amicizia possibile. E, perché emerga, abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a “lasciare il travestimento dell’io su questa spiaggia”, sulla spiaggia del dire e del commentare. Occorre fare silenzio sull’altro e su di sé.
Se in questi tre giorni e mezzo di lavoro insieme vi dovessero sembrare troppo difficili o troppo note le parole che ascolterete, non perdetevi d’animo, né cedete alla noia: non smettete d’ascoltare. Questa pazienza darà i suoi frutti nella rivoluzione copernicana richiesta per il pensiero. Se in questi tre giorni e mezzo di lavoro vi dovessero sembrare troppo dolorose le situazioni di ingiustizia e di conflitto di cui verrete a conoscenza, non scoraggiatevi e non rifugiatevi in voi stessi o in paradisi che ingannano. Fuggire altrove, infatti, non serve, perché questo altrove non esiste.