Tonalestate 2015
Al Passo del Tonale, nelle Alpi Italiane, da oltre quindici anni, noi, un gruppo di amici provenienti da varie parti del mondo, ci riuniamo per un periodo di dieci giorni di vacanza, durante i quali dedichiamo quattro giorni al “Tonalestate”, un congresso che prende il nome dal paese (Passo del Tonale) e dal periodo (l’estate) in cui si svolgono queste nostre vacanze.
Che cosa ci unisce, visto che siamo di età e di culture tanto diverse? Ci unisce quella che chiamiamo “Compagnia”: l’esperienza di un’amicizia profonda e duratura, grazie alla quale possiamo coinvolgerci, senza esserne né schiavi né padroni, nella realtà culturale e sociale dei diversi paesi in cui lavoriamo, studiamo, viviamo. Desideriamo, come tutti, un mondo pacifico, libero e degno, dove non esistano la miseria, l’ingiustizia e la guerra, e abbiamo potuto verificare che solo insieme, vivendo con libertà e dignità, potremo riconoscere, partecipare, valorizzare e anche promuovere forme di convivenza capaci di venire incontro agli aneliti e alle esigenze di ogni singolo uomo, aneliti ed esigenze che, pur prendendo le più svariate forme d’espressione, rimandano tutte a un unico anelito e a un’unica esigenza: l’anelito di felicità e l’esigenza di una completa e vitale realizzazione della propria persona.
Il Tonalestate è sempre dedicato a un tema, nuovo ogni anno. Durante il congresso, il tema scelto viene affrontato a vari livelli che riportano, tutti, alla concretezza dell’esperienza personale e al personale coinvolgimento con le parole che uno dice e con le istanze che propone. Non si tratta, quindi, di un lavoro accademicistico, intellettualistico, ideologico o pubblicitario: si tratta di un lavoro diretto alla persona (singola e insieme), lavoro quindi che apre domande più che imporre risposte, che apre cammini invece di chiuderli e che desidera fare della speranza una virtù possibile.
Il titolo del Tonalestate 2015 è: fiat voluntas mea (sia fatta la mia volontà). Questa frase sintetizza, con la forza propria della lingua latina, una delle caratteristiche dell’uomo di ogni tempo, dato che l’uomo è pronto a tutto pur che il “fiat voluntas mea” divenga realtà.
Il sottotitolo, “il delirio di onnipotenza”, indica di fatto il tema di quest’anno, tema che è, a essere sinceri, quanto mai complesso. Cerchiamo, pertanto, di inoltrarci in esso partendo da un’evidenza: l’uomo adora l’eccesso, lo alimenta, lo abbraccia e infine vi s’immerge, attratto da una forza cui non sa resistere e alla quale, però, è disposto a cedere. Quasi per un desiderato sortilegio, si ritrova, pertanto, dentro un turbine che lo affascina prepotentemente e lo spinge a sfidare la propria storia e il mondo intero, pur di camminare in un tempo e in uno spazio dove la felicità coincida con il potere e il possesso. L’uomo cede, in questo modo, al fascino del cosiddetto “peccato originale”, cioè al fascino dell’affermazione di sé: ciò lo porta, poco a poco, a quello che chiamiamo delirio d’onnipotenza, cioè a convincersi di avere in sé una forza fatale che lo rende degno di ogni privilegio e che gli consente qualsiasi tipo di azione, per quanto illegittima, ingiusta o criminale essa sia. È un male, questo, che l’uomo alimenta nel segreto della mente e del cuore, partendo dalle cose più semplici e quotidiane per arrivare alle più strazianti: dalla conquista di un uomo o di una donna che lo attirano, di una carriera che gli offra onore e denaro, di uno spazio che sia soggetto al suo solo arbitrio, fino alla conquista dei beni, dei territori, dell’opera altrui, della vita di interi popoli, di uomini, donne e bambini, nonché di animali e piante, di stelle e pianeti, che soffriranno le orribili conseguenze di questo suo delirante agire.
Da siffatto cammino, l’uomo esce sempre a mani vuote, anche quando crede d’aver conquistato l’intero universo. Ne esce impietrito e stanco, vittima e carnefice della sua tanto anelata felicità. Se gli riesce, può anche piangerne e cercar rifugio nelle buone cose di pessimo gusto, però, dentro di lui, l’indomabile affanno spesso ha messo radici troppo profonde: il giorno e la notte diventano un mormorio dove il delirio d’onnipotenza riprende piede, ingigantisce e poi esplode, poi travolge, poi sommerge e, infine, autoritario e invincibile, trascina in un vortice in cui sarà imperativo, ancora una volta, eccellere o perire.
Da lì la guerra, l’eterna, tremenda, macabra bambina che Henry Rousseau dipinse nel 1894 e che fa da immagine al manifesto di quest’anno. Mentre le nuvole rosa antico, il cielo dolcemente azzurro, le colline cariche di promessa e l’abito bianco della bambina ci fanno ricordare che sarebbe pur bello vivere in armonia e in pace, ecco che vengono a toglierci il fiato, a ferirci e intimorirci i rami secchi, le annerite foglie cadenti, l’irriconoscibile cavallo impazzito, i cadaveri, i corvi, la spada, lo strano giocattolo che la tirannica bimba porta come bandiera e infine il ghigno del suo volto stravolto. Sono oggetti d’intensa immobilità e noi ci identifichiamo con quei minuscoli sassi sui quali gli uomini e le donne, cui l’avidità e la ferocia han tolto la vita, poggiano le loro dolorose, chiome d’ebano. La guerra è crudele, provoca morte, stasi e inverno, ed è spietata come l’insana e instabile bambina di Rousseau, dai denti troppo bianchi e troppo compatti, segno di quanto sia orribile il suo apparente correre e il suo tragico gioire. Il quadro di Rousseau ci invita dunque a farci piccoli, a fermarci un momento, a diventare silenzio, a prendere una sana distanza dal delirio d’onnipotenza che cova in noi. Il quadro di Rousseau ci fa capire che la nostra battaglia non dovrebbe mai essere simile alla solitaria cavalcata di quella torbida bambina che non sa sorridere.
Dobbiamo purtroppo riconoscere che, anche se ci fanno orrore, sono però sempre loro – la guerra, la ferocia e la crudeltà – le armi di cui ci armiamo, nascondendole dietro tante ideologie e tanti ragionamenti, tanti sofismi e quisquiglie, coi quali giustifichiamo il sopruso, il razzismo, le disuguaglianze, l’iniqua distribuzione dei beni, le intemperanze e il carcere delle leggi, le nostre meschinità, il nostro imporci e il nostro male. Da lì hanno origine i massacri, i genocidi, le assurdità e le tante miserie che incontriamo nella storia e nella nostra vita. E non dobbiamo mai dimenticare che, mentre i re nudi vincono premi, l’Orca bianca naviga, libera, indisturbata e solenne, nei mari del Sud.
Perché mai l’uomo può solo pensare a vincere per non essere vinto e a possedere per non essere posseduto? E perché tanto spesso solo con la vanità l’uomo pensa il suo passato, il suo presente e il suo futuro? E perché l’uomo reagisce alla chandrà – questo inquieto ospite mai sazio di volgare disprezzo – con dannosissime e penose sfide a duello? Perché non sceglie altri modi per indagare, ricercare, ospitare e dialogare con l’infinita varietà d’ignoto che è presente nell’incedere lievissimo del giorno e della notte?
Esisterà un rimedio al delirio d’onnipotenza che genera, fuori e dentro di noi, tanto male? Ci viene in aiuto Percy Bysshe Shelley col suo Prometeo liberato, un dramma che ci mette in guardia dall’essere come Giove, cioè “onnipotenti ma senza amici”. La storia di Prometeo è raccontata in mille modi dalla letteratura di tutti i tempi e Shelley ha scelto un’interpretazione molto adeguata al nostro tema: Prometeo è disposto a perseverare, a dialogare, a combattere bene, pur di sconfiggere la tirrannia di Giove (simbolo del delirio d’onnipotenza proprio del potere politico), il quale lo adula invano, perché il Prometeo di Shelley è un uomo capace di resistenza, è un uomo valoroso, dall’immaginazione libera, con una mente e un cuore amorosi. Anche la nostra immaginazione, il nostro cuore, la nostra mente, se permettessimo loro di uscire dall’insano labirinto in cui spesso li rinchiudiamo, potrebbero essere valorosi e liberi come quelli del Prometeo di Shelley, e non si lascerebbero dunque più trascinare così facilmente dai flutti che li portano ora in braccio agli abissi dell’arrogante onnipotenza, ora nel ventre dell’acquiescente viltà, ora nel brontolio di una pentola che sbuffa liberando solo fumo. Ma dobbiamo fare molta attenzione: se il Prometeo di Shelley è questo eroe al cento per cento positivo, noi dobbiamo sempre essere coscienti che l’uomo, per sé solo, tende a camminare verso il basso, ed è facilmente pronto a diventare un Prometeo scatenato, colpevole di ubris, nemico pertanto a se stesso e al proprio intorno. Purtroppo, lo vediamo ogni giorno questo Prometeo che insanamente si scatena, disposto ad uccidere persino chi ama e chi lo ama, e non dobbiamo imitarlo.
Vogliano, dunque, il cielo e la nostra libera volontà, che qualcosa scatti in noi (grazie anche al Tonalestate di quest’anno), e che la nostra immaginazione si risvegli e si metta volentieri al lavoro senza mai cedere al delirio d’onnipotenza che trasforma ogni Prometeo in Giove. E prendiamo una decisione molto ferma e molto sana: che il nostro agire sia sempre insieme, e sempre a favore di coloro che chiamiamo “gli altri”.