2001: L’umanità di tonalestate
La mia casa è crollata. Tutte le case sono crollate. Abbiamo bisogno di aiuto.» «Il governo aiuta solo i suoi, quelli che hanno già un lavoro.» «Adesso, abbiamo tutti bisogno dell’appoggio della gente. Io, come tanti, mi sono ritrovato per strada: ho 78 anni; nella mia vita non ho mai visto un disastro così grande.» È il sabato 13 gennaio 2001: una scossa di terremoto che è durata 47 secondi ha sconvolto il piccolo Paese di El Salvador, in Centro America, uscito da poco dai 15 anni di sanguinosa guerra civile. Poi, un nuovo sisma lo colpirà, a distanza di un mese esatto, il giorno 13 febbraio, alimentando nuovi lutti e angosce superstiziose.
Ma il Paese continuerà a essere dimenticato e migliaia di persone, quelle superstiti, dovranno vivere sotto le tende di un grande campo profughi, nello stadio di calcio di Santa Tecla, nel campo chiamato «Cafetalón».
Giorgio Fornoni, giornalista e fotoreporter, è sul posto il 13 marzo; racconterà poi: « La gente vive con il terrore di una nuova catastrofe annunciata, che puntualmente, con una nuova scossa devastante di 5.7 gradi Richter, arriva mentre stiamo filmando una intervista con Francesco», il quale dice: «Siamo presenti come volontari già da parecchi anni; siamo vicini ai giovani che hanno la strada come casa, che sniffano colla, che si prostituiscono, che hanno difficoltà ad arrivare al domani. Troppi dubbi mi hanno oppresso per il passato; pensi che, dopo tanto soffrire con questi giovani e con queste ragazze, una, 17 anni, salì in cima a un palo della corrente elettrica, si buttò e morì in pochi istanti. Pensavo di avere fallito tutto; grossi dubbi mi tormentavano, ma trovai la forza di andare avanti. Siamo presenti sempre. Non diciamo: finito questo lavoro, torniamo in Italia; finito un lavoro, ne seguiamo un altro. C’è troppo bisogno, troppa necessità qui. Ora, ci mancava il terremoto. Povera gente!».
Anche Francesco Riva (e, come lui, tanti altri che sono stati nel campo profughi di Santa Tecla, ognuno con la propria storia da raccontare) è uno degli uomini di Tonalestate.
Giorgio Fornoni ha scritto di loro: «Ogni giorno, alle 8, Andrea, Nicola e altri loro compagni volontari dell’ISI sono già al lavoro per raccogliere i ragazzi da portare sotto le tende-scuola allestite sulla rampa erbosa ai margini del campo di calcio. Qui, dopo la scuola, distribuiranno loro un pasto caldo, prima di riaccompagnarli dalle loro famiglie. Vedendo al lavoro i volontari dell’ISI nelle tende-scuole di Santa Tecla, che danno una mano agli insegnanti locali, tiro un sospiro di sollievo: forse, ci può essere un futuro migliore per questa gente».
ISI (“I Sant’Innocenti”) è un’associazione di volontariato e di beneficienza che, dall’Italia, interviene in soccorso ai bisogni che i suoi uomini incontrano; quest’anno, è intervenuta molto per sostenere l’esperienza al Cafetalón.
Ma l’esperienza del Cafetalón ha anche una preistoria, di cui hanno fatto parte associazioni di promozione umana e di solidarietá sociale già dai tempi della guerra; esse svolgevano attivitá educative e culturali rivolte soprattutto ai settori di estrema povertá (corsi di fromazione al lavoro, artigianato, igiene sanitaria, economia domestica, cucito e corsi di alfabetizzazione) e aiutavano persone povere, ma dotate di qualche iniziativa, attraverso prestiti senza interesse, a diventare microimpresari, capaci via via di mantenere sé e la famiglia e di contribuire allo sviluppo locale. Di tale preistoria fanno parte anche i corsi svolti nelle carceri minorili di tutto il Paese e con i giovani presenti nelle zone a rischio.
In particolare, non posso non ricordare a Tonalestate l’attività del “Paolo Miki Center”, iniziato nei primi anni novanta: sollecitati dalla grave situazione di El Salvador, giapponesi, irlandesi, italiani e salvadoregni decisero di impegnarsi a costituire una “casa abierta”, in un quartiere sicuro della città, per le bambine e le ragazze della strada. Si trattava di una casa aperta perché esse potessero via via sceglierla come luogo dell’accoglienza libera per loro e, forse (come per alcune fu), del loro primo cambiamento di vita, tappa di un cammino che le portasse a provare qualcosa di più umano e a decidere di lasciare la strada. In San Salvador non esistevano strutture di quel tipo; e le ragazze erano considerate da tutti le più difficili e le più resistenti al cambiamento.
Maria Paola Azzali, ora presidente di Tonalestate, si era trasferita là, e con lei tutta la famiglia (marito e quattro figlie), per seguire in prima persona quel tentativo: “Si lavorò a lungo nelle strade e nei parchi della città, dove le ragazze (che, per la maggioranza, erano dedite alla pega o colla, la droga dei poveri) si radunavano per i loro furti o per chiedere il denaro per potere sfamarsi (e trovavano anche chi le sfruttava, avviandole alla prostituzione e al consumo di droga più pesante). Contatti continui, rischio, volantini di invito con poche parole e con disegni, unità tra noi e soprattutto fiducia in Dio furono gli elementi che ci permisero agire”. La casa fu aperta e, dopo un periodo di rodaggio, assunse un volto stabile, tanto che l’inaugurazione ufficiale fu nel febbraio del 1993, alla presenza del Nunzio Apostolico, l’Arcivescovo Monteiro De Castro, dei benefattori locali, di quei padri salesiani che appoggiarono l’iniziativa, delle due fondazioni collaboratrici e dei volontari.
Dice ancora Maria Paola Azzali: “Quella piccola esperienza fu come il tramite della misericordia di Cristo per quelle giovani in difficoltà: offriva loro l’opportunità di andare in bagno, di potersi lavare, di lavare i propri abiti, di tenere un piccolo guardaroba, di pranzare, di svolgere attività ricreative (ogni settimana, c’era anche una gita, in luoghi dove trascorrere una giornata di convivenza; e si faceva uso dei mezzi pubblici, per educare le ragazze a un utilizzo diverso delle strutture pubbliche, dei mezzi di trasporto e dei rapporti sociali), di iniziare l’acquisizione di documenti anagrafici personali, di fare ricorso al medico e, per chi cominciava a desiderarlo, di svolgere attività di alfabetizzazione primaria; e tutto ciò avveniva nel rispetto della libertà delle ragazze in quanto allo scegliere quando venire e se tornare. I primi tre mesi passavano all’insegna del sospetto e delle bugie: paura di essere denunciate e poi rinchiuse in carcere, paura di essere obbligate a prendere decisioni non volute e timore di perdere la propria autonomia totale; ma, ogni giorno, aumentavano l’affetto, la stima e il desiderio di affidarsi a qualcuno che le ragazze stesse percepivano come un soccorso alla loro umanità ferita”.
Se Tonalestate, tra luglio e agosto 2001, potrà parlare dell’uomo, lo farà avendo presente che l’uomo di cui si parla è proprio l'uomo incontrato là, in quei luoghi abbandonati.
Certo: in El Salvador, il «Paolo Miki Center» e il «Cafetalón» sono soltanto due tra le molte esperienze che Tonalestate riconosce come parte della propria «cultura»; ma ce ne sono anche altre; e tutte stanno a dimostrare che, come disse Camus, "là dove nessuno può vivere, si può forse imparare a vivere": ci sono i corsi di formazione, c’è la guardería o asilo «Las Abejitas», c’è la «Domus Nàzaret» di accoglienza, c’è il lavoro all’Instituto de Protección al Menor; e l’elenco potrebbe continuare, non soltanto per El Salvador, ma anche per l’Honduras e per il Messico. E, implicati in tutti questi lavori o in parte di essi, troverete che non ci sono soltanto italiani, ma persone dei più diversi Paesi; e, in particolare, troverete che ci sono stati e che ci sono i giapponesi di Tonalestate: Hikaru Yoshimi, per esempio, una giovane che ha vissuto in El Salvador per 6 anni; oppure Yukie Ohashi, impiegata di 28 anni; esse hanno anche animato, in Giappone, l’attività di “Olive Japan”, associazione senza fini di lucro che, dai primi anni del 1990, aiuta, soprattutto con l’invio di fondi e di volontari, nelle emergenze e nella ricostruzione.
Tutto era cominciato con un bazar di beneficenza durante la festa della scuola; il bazar è continuato anche l’anno dopo e ancora dopo e ancora oggi. Non solo; il gruppetto iniziale cominciò presto a essere conosciuto e ad ampliarsi. Dice Yukie Ohashi: “Abbiamo deciso subito di cercare di coinvolgere più gente, scrivendo sui giornali e andando a parlare nei centri culturali e nelle scuole. Nel 1995, è partita per El Salvador una del nostro gruppo, Hikaru Yoshimi, e, nel 1996, sono partita anch’io, per un anno. Anche altri giovani, soprattutto universitari, sono andati, per periodi di almeno tre mesi, sia in El Salvador che in Messico che nell’Honduras colpito dal tremendo uragano del 1998. Per raccogliere fondi, oltre a chiedere aiuto alle varie istituzioni pubbliche e private, chiediamo alla gente tramite i giornali e le scuole; facciamo, oltre ai bazar, cene di beneficienza, conferenze, cineforum, feste e corsi di lingua, di cucina, di pittura e di ikebana; tutte queste attività diventano anche l’occasione per conoscere gente e allargare l’amicizia, per cui, adesso, non siamo più soltanto studenti, ma siamo impiegati, studenti, madri e padri di famiglia, operai e professori universitari. Ciò che ci unisce è il desiderio di un’amicizia per un ideale e il nostro modo di lavorare è quello di partire dalla persona concreta, non da un’umanità teorica”.
Olive Japan conta con uno staff di 8 persone e con circa 300 collaboratori in Giappone; ma nessuno è stipendiato; anzi, ciascuno contribuisce con quanto può per pagare l’affitto dell’ufficio, il telefono, i viaggi e le varie spese. Non per nulla, i giapponesi hanno voluto usare per la loro associazione la parola “olive”: l’albero di olivo, oltre a essere simbolo di pace, è anche segno di forza e di coraggio. E non senza motivo il Ministero degli Esteri giapponese ha inserito Olive Japan tra le principali ONG del Giappone.
Il mio resoconto potrebbe continuare ed essere lunghissimo; ma non voglio tediare, né tanto meno «autoincensarmi» (dato che anch’io mi considero parte di queste storie, di questa storia e di Tonalestate), né abbandonarmi a elogiare. Torno perciò allo scritto di Giorgio Fornoni: «La tragedia viene vissuta da molti come un castigo divino e spuntano predicatori fanatici che pronosticano la fine del mondo e la venuta di un nuovo messia, aumentando angosce e sensi di colpa. L’unica certezza di un aiuto concreto: anche qui trovo i volontari di ISI al lavoro». C’è scritto «i volontari di ISI»; ed è giusto.
Ma non sarebbe stato anche giusto dire «quelli di Tonalestate»? Cosa c’è dunque che accomuna persone e imprese di diversi Paesi, diverse età e diverse professioni? Potrei dire che, al fondo, c’è una piccola compagnia di persone. Ma la risposta non è esauriente.
Potrei aggiungere, a completare: questa «compagnia picciola» vive nell’esperienza di un gruppo di cristiani; ma so che questa risposta può aprire a riduttivi e pericolosi fraintendimenti. Dovrei allora descrivere, descrivere ancora e raccontare sempre: infatti, dove non si può definire né schematizzare, la descrizione è il modo meno peggiore per rispettare la realtà. Ma ho già prolungato eccessivamente il mio racconto, per cui vi aggiungerò un solo fatto.
Quest’anno, in Giappone, con prefazione di Sua Eccellenza l’Arcivescovo Monsignor Giuseppe Pittau, segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica, è uscito un libro che si intitola «Piccola Antropologia»: credo che sia in esso che sono contenuti i minimi elementi che danno qualche caratteristica dell’umanesimo che vive nel sottosuolo di Tonalestate; e Monsignor Giuseppe Pittau così ne scrive: «Nella Piccola Antropologia Cristiana, l’autore presenta brillantemente questo vero umanesimo, nuovo e aperto. I lettori potranno capire facilmente cosa sia il vero umanesimo e gli studenti, attraverso lo studio di questo testo, potranno fare un passo in avanti verso un mondo libero. Mi auguro di cuore che ciascuno di essi possa trovare la direzione verso cui procedere con sicurezza». Ecco: come, a proposito dell’esperienza di El Salvador, ho potuto dire che là c’era l’uomo di cui Tonalestate qui parla, altrettanto posso dire ora: anche nelle pagine di questo libro giapponese c'è l'uomo di Tonalestate, l’uomo che, per usare le parole che Theilhard de Chardin scrisse in una lettera del 1929, più va avanti nella vita e più avverte «che il vero riposo consiste nel rinunciare a se stessi: nell’ammettere, cioè, risolutamente, che non ha nessuna importanza essere felice o infelice (nel senso corrente di queste parole). Riuscita o soddisfazione personale non meritano, se si arriva a sfiorarle, che se ne faccia un gran conto; e non bisogna turbarsi se non si conseguono o tardano. Quel che vale è l'azione fedele, in Dio, per il Mondo. Per portarsi a vedere le cose in questo modo, e viverle, occorre fare un certo passo in avanti, o magari farne un altro di ritorno su se stessi, di fronte a quella che è l'abitudine corrente della gente. Compiuto una volta per sempre questo gesto, quanta libertà per lavorare; e per amare! La mia vita è ora tutta invasa da questo disinteresse verso me stesso, che io sento farsi sempre più grande quanto più cresce in me il gusto profondo che mi attira verso tutto quello che è reale, alla radice stessa della realtà».
di Stefano Barbieri