L’impegno – un imperativo categorico (Michel Warschawski)
Una delle prime massime insegnatemi a scuola e che, a mio parere, è alla base della morale, è presa dal Trattato del Sabato del Talmud babilonese (primo secolo A.C.) dove Hillel il saggio ci insegna: “Non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te”.
Mia madre, Mireille, deceduta qualche mese fa, alla quale vorrei dedicare queste mie riflessioni, aveva l’abitudine di dirci: “Questo è solo l’inizio della morale, poiché questa massima ci dice solo ciò che non bisogna fare; la domanda importante che ne consegue è: “Cosa fare?” Cosa fare per rendere il mondo nel quale viviamo migliore, per lottare contro l’inuguaglianza e per operare per un mondo più giusto?
La parola chiave dell’etica nella quale sono stato cresciuto era “impegno”. Un concetto che è diventato alla moda negli anni sessanta grazie a Jean Paul Sartre e agli esistenzialisti.
L’impegno è il rifiuto dell’indifferenza di fronte ai problemi del nostro mondo, grandi o piccoli che siano, e la scelta di agire affinché le cose cambino. “Nulla di ciò che è umano può esserci estraneo”; e a questo, all’inizio del XXI° secolo, dobbiamo aggiungere: “Così come nulla di ciò che riguarda il nostro ambiente”.
Se l’impegno era nell’aria in quell’epoca, esso s’iscriveva anche, per ciò che mi riguarda, nella storia contemporanea ai miei cari: il fascismo, l’occupazione nazista in Francia –paese dove sono cresciuto- e il genocidio degli ebrei d’Europa.
Un genocidio – ne abbiamo parlato a Tonalestate l’anno scorso- è possibile solo a causa dell’indifferenza della maggioranza. I “cattivi” in generale sono solo una minoranza, cosi come lo sono “i Giusti” d’altra parte, pronti a rischiare la vita per combattere il male. La minoranza dei cattivi può compiere il male solo perché la maggioranza volta la testa e chiude gli occhi.
La deportazione e lo sterminio di una parte considerevole degli Ebrei di Francia o d’Italia sono stati possibili solo perché la maggioranza ha lasciato agire una minoranza fascista e collaborazionista.
“Se noi e molti altri siamo sopravvissuti, è grazie alla solidarietà di una minoranza di persone coraggiose che ci hanno protetto, scegliendo di impegnarsi contro i nazisti e i loro collaboratori. E’ per questo che voi, figli miei, avete il dovere della solidarietà verso chi, come noi, è vittima del razzismo e dell’emarginazione”.
Sono queste parole di mia madre, così come l’impegno di mio padre in seno a un manipolo di partigiani nel sud est della Francia, ad aver dettato il mio sostegno alla lotta di liberazione nazionale algerina, poi, in Israele, il mio impegno a fianco dei Palestinesi, nella loro lotta contro l’occupazione coloniale e l’oppressione nazionale, per la libertà e l’indipendenza.
Il ruolo centrale dell’impegno ha, per me, un corollario che, qualche volta, ha messo a repentaglio le mie relazioni politiche con qualche compagno: privilegiare l’azione all’ideologia.
Si, io mi sento più vicino a un prete cattolico in Brasile o nei Paesi Baschi o a un militante islamico a Gaza o in Libano che combattono l’oppressione nei loro rispettivi paesi, piuttosto che a un compagno comunista settario, che passa il suo tempo a giustificare – attraverso i testi sacri di Marx, di Lenin o di Gramsci – il perché non vuole sostenere le reali lotte di emancipazione che si svolgono nel mondo che ci circonda. L’impegno è invece il dovere di un’azione!
La ragione che fa esistere la vostra Compagnia e questi incontri di Tonalestate è – e chi può metterlo in dubbio? – la vostra volontà di rispondere a questo dovere di impegnarsi. In Italia certamente, ma anche in giro per il mondo: dall’America Centrale all’Irlanda, dai Paesi Baschi alla Palestina, senza dimenticare il Giappone.
Nello spirito del nostro compianto Giovanni, siete riusciti a tradurre questo impegno in una straordinaria solidarietà transcontinentale, solidarietà che, chi tra di noi non ha paura di sembrare “arretrato”, chiamerà l’internazionalismo del XXI° secolo.