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Auri sacra fames – Genocidi e Massacri

27 Luglio 2011 Un Commento

Per introdurre il tema di Tonalestate 2011, inizio dal termine massacro, la cui etimologia è dubbia e multiple. Probabilmente, viene da massàcre, termine francese del XIII secolo che attinge dal latino barbarico mazàcrium, il quale, forse, deriva dalla fusione del latino sacràre (immolare agli dei) e il provenzale massar, che significa colpire. Per altri, deriva da scaramàxus, che è il coltello usato per squarciare gli animali. In araldica, indica la testa di bue o di cervo scarnificata e appesa (in coppia) alle pareti di un cacciatore. Massacro è dunque una parola che indica un’azione molto violenta contro una vittima, ed è poi diventata sinonimo del termine strage (dal latino stratus, abbattuto, steso al suolo), cioè uccisione di più persone stese al suolo, abbattute, perché non si difendono o si difendono male.

Il termine genocidio venne invece usato per la prima volta nel 1944, da Raphael Lemkin, un ebreo polacco, che usò la fusione di due parole: genos (parola greca che significa famiglia, tribù) e caedere (verbo latino che significa uccidere). Lo studio di Lemkin, dal titolo Genocidio, si basò sulla strage perpetuata dai turchi contro gli armeni nel 1915. La parola vuole quindi indicare un’azione violenta diretta contro una famiglia o una tribù, cioè contro persone unite da storici vincoli di sangue, di costumi, di norme o da vincoli religiosi (e annoto che considero che religione sarebbe, dato che significa “ricomporre un vincolo”, la parola per eccellenza antinomica a quella di massacro e di genocidio). In questo modo, e grazie anche alla battaglia condotta da Lemkin, si ottenne che, così come, quando si uccide l’individuo si usa la parola omicidio, qualora si uccidano gruppi collettivi (nazionali, etnici, religiosi) si usa la parola genocidio.

Il Tonalestate 2011 ha per tema “genocidi e massacri”, che, dunque, sono specifiche e crudeli azioni dirette rispettivamente o contro più individui fra i quali esiste uno storico vincolo di appartenenza o contro uno o più individui fra i quali non esiste detto vincolo.

Sono innumerabili i genocidi e i massacri perpetuati dall’uomo e dagli uomini nella storia: enumerarli tutti è, di fatto, impossibile; dimenticarne anche uno solo costituisce, di per sé, un delitto grave, perché nessun uomo, per nessuna ragione, dovrebbe vedere decisa la sua morte da uno o altri uomini. La morte dovrebbe essere un momento privilegiato di compimento di una storia di unità tra il Mistero e l’uomo, come successe ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe. È molto innaturale che la morte, questo ultimo abbraccio che ci dà la terra, sia invece provocata violentemente da chi dovrebbe esserci padre, madre, fratello o sorella, macchiando di male, per l’eternità, una terra che forse non ha più lacrime.

Noi tutti siamo discendenti di Caino e poi di Noè (che non uccise suo figlio Cam, ma lo maledisse per sempre, e possiamo presumere che questo sia qualcosa di ancor peggio della morte violenta). Noi siamo, appunto, dell’unica razza che ha fatto dell’omicidio individuale o collettivo una norma per risolvere i problemi in forma rapida e furiosa. Vorremmo dimenticarlo, ma al fondo non ci riusciamo e siamo pieni di paura verso l’altro uomo che può, in mille modi, rubarci la nostra morte e darci la sua.

Per non restare nell’astratta generalità, il Tonalestate 2011 corona il tema dei genocidi e dei massacri con le parole di Virgilio (versi 56 e 57 del libro terzo dell’Eneide) diventate poi un famoso proverbio tra i latini: auri sacra fames. Sappiamo che gli uomini commettono cose tremende per molte ragioni, e il Tonalestate riunisce, o forse limita, queste ragioni all’ “auri sacra fames”. L’etimologia della parola fame è anch’essa dubbia o, se vogliamo, multiple. La radice latina fa è radice di fatisci che significa venir meno, mancare. La radice latina fa è equivalente alla greca cha (da cui cha-teo= sono mancante, desidero). E sempre il greco phag-o (in assonanza col fa) significa divorare. La parola fame esprime quindi un grande bisogno di divorare cibo. Unita al genitivo auri, indica: grande bisogno di divorare quel particolare cibo che è l’oro, la ricchezza. Ci si ammazza, dunque, non solo per gelosia o vendetta o fastidio, ma anche e soprattutto per il grande bisogno di oro, di ricchezza. Questa auri fames dice Virgilio è sacra: per i latini, l’aggettivo sacrus indica, infatti, tanto il sacro quanto l’esecrabile ed è chiaro che Virgilio usa qui l’aggettivo nel significato di esecrabile. E Virgilio spiega che questa auri sacra fames induce l’uomo a cose tremende.

Il manifesto del Tonalestate ce ne presenta una: Saturno che mangia i suoi figli. La leggenda racconta che Crono (per i latini Saturno), “dai pensieri tortuosi”, il più giovane fra i suoi fratelli, ebbe la meglio su Urano, suo padre, che impediva ai figli concepiti di uscire dal grembo materno. Crono, però, fu un figlio non molto diverso da suo padre: quella strana contraddizione per cui si desidera generare, ma si teme di essere poi annichiliti proprio da chi si è generato, spinge Crono a mangiarseli i suoi figli, per tenerseli vivi solo dentro di sé, finché Zeus – il giovane eroe – non otterrà di farglieli vomitare uno a uno. Come dice Omero, Crono che divorava i figli fu il padre dei tre re del mondo: Zeus, Poseidone e Ade. E Crono fu anche “la divinità da cui deriva la ricchezza alla terra”, festeggiato dai romani, ogni dicembre, nei saturnalia (quando persino gli schiavi venivano lasciati liberi) per una settimana di carnevalesca festa attorno al saturnalicius princeps.

Goya – conosciuto a Madrid come don Paco – dipinge ad olio su intonaco, nella sala da pranzo della sua casa in riva al Manzanarre, l’orrenda azione di Crono e lo fa, tra il 1820 e 1823, con quell’animo tutto suo, abitato dal sarcasmo e dall’autenticità, precedendo di quasi cent’anni l’arte moderna. È questa una delle sue “pinturas negras” che segnano il periodo forse più scoraggiato e debilitato della sua vita. Goya ritrae se stesso in questo Saturno che sta divorando uno dei suoi figli? E questo figlio è una donna o un uomo? È un fantoccio, una statua o un essere umano? Non lo sappiamo. Restiamo solo avviliti, affranti, turbati dalla macabra azione di stampo dantesco, azione senza tempo, che trasforma in macchia rossa una testa e una mano che già non esistono. Restiamo inorriditi dalla follia di quello sguardo di vecchio, perduto nel vuoto a contemplare fantasmi mostruosi che si avvicinano anche a noi, non visti.

Sempre nel manifesto del Tonalestate 2011, leggiamo una frase tanto famosa quanto forse incompresa. Si tratta di una poesia che è circolata oralmente per vari anni in Germania. A crearla, é stato Martin Niemöller, prigioniero dal 1937 al 1945, filo-hitleriano agli inizi del regime e poi, sempre più decisamente, antinazista. La traiettoria culturale di questo pastore protestante tedesco è diversa da quella della maggior parte degli uomini: normalmente, succede che uno sia molto rivoluzionario da giovane e poi, quando già l’età e l’esperienza rendono meno abili al rischio, si diventa conservatori. Per Niemöller non fu così. In occasione del suo novantesimo compleanno, Niemöller parlò della sua evoluzione da “arciconservatore” a “rivoluzionario” (parola con cui amò definirsi), aggiungendo, con fresca ironia, che se fosse arrivato ai cent’anni, sicuramente sarebbe diventato anarchico. Ai cent’anni non ci arrivò, però ci lascia un esempio di come non addormentarsi su quel che si sa o su quel che si è fatto.

La poesia di Niemöller passava di bocca in bocca, secondo il più bel metodo di trasmissione della cultura viva. Non diede mai una trascrizione del suo poema, che, via via, modificava nelle varie conferenze che tenne dopo la guerra. La vedova di Niemöller, morto il marito, ci ha lasciato una versione scritta della poesia, una versione dunque forse “definitiva” che risulta essere la seguente: “Prima di tutto, vennero a cercare i comunisti e non dissi niente, perché non ero comunista./Poi, vennero a prendere gli ebrei e non dissi niente, perché non ero ebreo./Poi, vennero a prendere i sindacalisti, e non dissi niente perché io non ero sindacalista./Poi, vennero a prendere i cattolici, e non dissi niente perché io ero protestante./Poi, vennero a prendere me, però non c’era più nessuno che dicesse nulla”.

La trasmissione orale ha il grandissimo (e meraviglioso) vantaggio di permettere che, secondo la storia personale, ciò che è efficace e bello venga attualizzato, seguendo appunto quel metodo tanto vivo (e che, oggi, l’accademismo ha tanto distrutto) della libera interpretazione e della libera interpolazione. Perciò Brecht, se mai usò davvero questa frase (che, suppongo, gli sia stata attribuita, per la nettezza del linguaggio, la mancanza di sentimentalismo e la ferrea logica del racconto tipici di Brecht), forse la fece sua e tolse ciò che voleva togliere e aggiunse ciò che voleva aggiungere.

All’interno, dunque, di una vacanza che vede riuniti, ancora una volta, giovani e non più giovani dai cinque continenti, in un dialogo che non vuole risolvere ma, curando ferite, far maturare la coscienza, e sotto lo sguardo severo ed eterno delle Alpi, al Tonalestate 2011 si parlerà, si ricorderà e si denunceranno fatti che ci lasciano senza fiato e in profonda riflessione. Ma la speranza che si fa strada nell’oscurità non può che avere le radici solide che solo il realismo le può concedere.

Un Commento »

  • fernanda ferraresso said:

    Da tempo ormai l’assistere a fatti, non eventi, di questa portata, a massacri studiati sui tavoli dell’economia mondiale, pesa sui propri piedi, sul cammino ed è sempre più arduo tenersi in piedi senza crollare sotto questa infamia, che ci unisce tutti,perché anche il silenzio dei non agenti è fare. eppure ognuno, in sé camminando può trovare quel pezzo di terra sgombro,quella lingua analfabeta che scrive in corpo ciò che ci unisce e ciò che è distanza necessaria per portare ciascuno all’altro il dono di sé, in un un essere che è continuo, non contiguo e non frammentario,nemmeno il nome designa, disegna, confina.Noi ci siamo allontanati e rintanati in quella assurda grotta dei dilemmi, delle ombre illusorie e vane e non tocchiamo più con tutti i sensi ciò che è un solo corpo es-te-so. Ringrazio per questa presentazione.f.f.