Facevo il chierichetto a Barbiana
“Il 7 dicembre 1954 facevo il chierichetto a Barbiana, pioveva. Don Lorenzo Milani entra in chiesa. Il parroco se ne era andato altrove e noi non ci aspettavamo di vederne un altro. Ci avevano detto che per 94 anime non era il caso di sciupare un prete. Non c’era una strada che portasse a Barbiana e quando arrivavi non c’era la luce né l’acqua. Quando da Calenzano lo trasferiscono a Barbiana, Lorenzo Milani obbedisce. Aveva la capacità di obbedire senza mai rinunciare a esprimere il suo pensiero, come poi avemmo modo di imparare”.
E’ questo il primo ricordo che Agostino Burberi ha di Don Lorenzo Milani. Aveva otto anni e insieme ad altri sei bambini frequentò la scuola di Barbiana vivendo direttamente tutta la vicenda umana e pastorale del sacerdote toscano fino alla sua morte.
Oggi è animatore e vice-presidente della fondazione “Don Lorenzo Milani”.
Il Tonalestate aveva ospitato, nella scorsa edizione, una bella e molto frequentata mostra fotografica che documentava molti passi della storia di Don Lorenzo. Si parlava allora di “Vite dedicate” e la testimonianza di Agostino Burberi ha aggiunto le parole della sua esperienza a quelle immagini. Racconta di quel suo Maestro, amico, esempio, senza quasi prendere fiato, ancora profondamente coinvolto con il suo ricordo.
Ripete che don Lorenzo veniva da un ceto sociale molto lontano dalla gente di Barbiana, che aveva frequentato le scuole più esclusive, che quando entrò in seminario i suoi faticarono a comprendere, soprattutto quando chiese di diventare l’ultimo fra i poveri.
A Barbiana trovò i bambini. Già il giorno dopo il suo arrivo passò per le case promettendo ai genitori che si impegnava a fare un doposcuola per tutti. Non era tipo da spendere parole con leggerezza. Cominciò e fece scuola 24 ore al giorno tutti i giorni dell’anno. Ma la sua non fu solo una scuola, Barbiana era una comunità. “Era tormentato dai ragazzi, interessato a che conoscessimo le cose importanti. Volle la scuola perché sapeva che la parola fa la differenza fra i ricchi e i poveri (“il tuo padrone conosce 1000 parole in più di te, per questo è il tuo padrone”) e perché con essa ci spingeva a ricercare la propria verità. Diceva che a questo non avrebbe mai rinunciato, nemmeno se gli fosse costato la vita”.
La scuola era la vita, il Vangelo e la Costituzione, i giornali e la terra da coltivare: I CARE. Una parola divenuta molto celebre, che scardinava il “me ne frego” fascista.
Don Milani era instancabile perfino quando si ammalò così gravemente. Pensò ai corsi di preparazione professionale, allo studio delle lingue straniere- ospitando nell’estate ragazzi di altri paesi- e coinvolse i ragazzi in uno studio della Costituzione e dei diritti fondamentali quando scoppiò il caso dei cappellani militari sull’obiezione di coscienza. Ne ricevette una denuncia e affrontò un processo del quale Burberi consiglia di rileggere la famosa lettera che conteneva il suo appello ai giudici. In essa c’è un sincero riconoscimento del valore della legalità ma anche la determinata decisione di difendere la libertà e la ribellione di fronte all’ingiustizia. Considerava l’obbedienza non una cieca virtù ma piuttosto una chiamata alla responsabilità verso il tutto e questo insegnava con la sua vita fatta di scelte e di legami molto stringenti.
Un ultimo ricordo di Burberi riguarda gli ultimi giorni del sacerdote toscano. Don Milani volle andare a morire a casa della madre. Per i ragazzi, all’inizio, fu quasi un affronto. Poi stettero con lui, sempre, negli ultimi mesi, in quella casa frequentata dalla borghesia più altolocata e capirono che don Milani aveva voluto portare la sua vita, fatta di quei ragazzi, entro quell’ambiente perché anche la sua morte potesse essere un gesto educativo per qualcuno.