Uscire da un assurdo
Masahide Ota fissa nel 15 aprile del 1945 la data d’inizio del genocidio degli isolani di Okinawa. E’ stato professore di Scienze Sociali e Preside della Facoltà di Diritto e Lettere all’Univeristà di Ryukyus, specializzandosi nello studio della società moderna e contemporanea, dopo essere stato Governatore di Okinawa e testimone diretto, come soldato, nella Battaglia. Il suo intervento è il racconto di quei 90 giorni di terrore. Quel 15 marzo l’esercito giapponese invade l’isola, di fronte all’avanzata americana, con l’intento di sacrificare questa gente per proteggere il resto del Paese. Il governo giapponese aveva dato l’ordine che se non potevano vincere la guerra allora tutti dovevano morire. I soldati sequestrarono il cibo e costrinsero moltissimi civili ad uccidersi con il veleno per i topi, con le bombe a mano che gli stessi soldati distribuivano, o a colpi di pietre. Sequestrarono i professori, i ragazzi e le ragazze costringendoli al fronte dove morivano in gran numero. Okinawa era abitata da una popolazione diversa dai giapponesi e non capiva il perché di tale massacro. Tokio rese in schiavitù gli isolani, ne strangolò l’economia e istituì una scuola militare per addestrare le spie che poi infiltrava nelle scuole. Chi si augurava la fine della guerra o ne prevedeva l’esito negativo veniva denunciato e passato alle armi come traditore. Venne soppressa anche la lingua locale e vennero giustiziati i più anziani che parlavano soltanto quella. Si trattò del massacro di una minoranza: le cifre sono tra i 150 e i 200mila morti. Il professor Ota conclude il suo racconto dicendo di essersi reso conto che anche coloro che vennero come nemici erano vittime, vittime di un’idea maledetta sull’uomo, per questo coltivare la vendetta non ha significato. La guerra uccide l’umanità dentro gli uomini e li rende mostri, ma se “ci guardiamo tutti come vittime, possiamo smettere di farci la guerra”. Il Tonalestate ha proiettato nelle sale espositive delle mostre 2011 il video che documenta in modo completo il racconto di quei disgraziati momenti.
L’esperienza delle minoranze armene e curde ci è stata raccontata da Ragip Zarakolu uno dei 98 fondatori dell’Associazione per i diritti umani in Turchia (HRA o in turco IHD). L’ideologia basata sul nazionalismo ha sempre impedito al governo turco di ammettere la questione delle minoranze e riconoscere il genocidio di cui sono stati vittime gli armeni. Si chiude la questione come terrorismo e non si vuole affrontare il problema politico che la presenza di queste minoranze pone. Il governo è composto da membri eletti e da esponenti dei militari e invano, da molti anni, la Turchia attende una Costituzione che possa affrontare il problema della convivenza con i turchi e con gli armeni cristiani. Gruppi organizzati da società segrete nazionaliste hanno perpetrato aggressioni indicibili nei loro confronti e la gente ha creduto che fossero azioni tese alla sicurezza dei turchi. Nel 1985 si contavano 50mila morti tra i curdi e nello stesso decennio comincia anche la deportazione in massa degli armeni: si trattava di un preciso progetto politico di sterminio che ha privato la Turchia anche di buona parte del proprio tesoro culturale e sociale. Zarakolu si è fatto editore per pubblicare la verità su tale piano di sterminio, raccontando i fatti come sono avvenuti, diversamente da quanto fanno i mèdia e i programmi universitari e rompere il silenzio sul genocidio. Questa sua azione lo ha esposto, insieme ad altri giornalisti, all’arresto e alla detenzione.
Raymond McCartney è nato a Derry, è un politico del Sinn Fein è uno dei primi hunger stiker durante i troubles irlandesi degli anni ’70-80. Ha preso parte alla marcia per i diritti umani a Derry il 30 gennaio 1972, l’evento che è stato poi da tutti ricordato come il Bloody Sunda. Ha aperto il suo intervento portando i saluti di Francis e Annie Brolly che sono stati portavoce della questione irlandese nelle edizioni passate del Tonalestate. “I colonizzatori del nord Irlanda si sono introdotti per prendere i nostri commerci, la nostra agricoltura, la nostra lingua. Gli inglesi ci hanno oppresso lungamente costringendo molti di noi ad emigrare negli Stati Uniti. Chi è rimasto ha dato vita a movimenti per la lotta contro l’Inghilterra fino alla guerra di indipendenza. Nel 1920 sono stati creati 2 stati e il nord Irlanda è diventato un paese di serie b oggetto dell’oppressione del governo inglese. Nel 1969 gli inglesi mandarono l’esercito per reprimere le prime lotte per i diritti del nostro popolo. Iniziò un vero stato di polizia. Il 15 marzo c’è stata una marcia per chiedere il rispetto dei diritti, in particolare per non essere incarcerati senza motivo. L’esercito ha sparato sulla folla e arrestato diversi manifestanti. Il governo britannico aprì un’inchiesta per verificare le responsabilità dell’esercito che si difese con una serie di menzogne. I manifestati erano persone normali che chiedevano cose normali e non volevano il male di nessuno. Da questa giornata di sangue iniziò la lotta armata che non faceva piacere a nessuno di noi, perché la violenza non è un bene. Un altro capitolo importante è quello del 1980. Lo stato inglese non volle riconoscere lo status di prigionieri politici. Io ero tra questi. Ci siamo chiusi nudi nelle nostre celle: è stato lo sciopero delle coperte. Altri detenuti, tra cui Bobby Sand, hanno iniziato lo sciopero della fame e Bobby ne morì. Il governo britannico finalmente capì di non potere ignorare la ribellione irlandese ed è iniziato il processo di pace che oggi ci ha portato ad avere un nostro governo. Ora il Sinn Fein ha una propria rappresentanza politica, molti diritti sono stati riconosciuti. Non c’è problema che non possa essere risolto se c’è la volontà di negoziare e di non escludere nessuno. Questa è la speranza di cui sono testimone”.
Circa 11 milioni di Rom vivono in Europa. Sono la più grande minoranza del continente e la loro presenza ha radici nel Medio Evo. Ne parla Katalin Katz, ebrea di origini ungheresi, inserita in Israele fin da bambina, lettrice alla Hebrew University di Gerusalemme e membro della Domari Society, associazione di Gitani di Gerusalemme.
I Rom arrivano dall’India, dal XIV secolo si sono spostati in Europa. Una accusa che si fa loro è di non avere memoria storica, né legame con una patria. Sono europei a tutti gli effetti, ma fedeli alle loro tradizioni, linguaggio e cultura. Primo valore per loro è la famiglia allargata, hanno una forte cultura della collettività. Questo contrasta con la cultura individualista europea. La tradizione dei Rom non si basa sul guadagno o sulla proprietà, come invece è per gli europei. Hanno un forte legame con la natura. Non hanno una struttura gerarchica, i capi sono scelti tra le persone riconosciute sagge. Hanno tribunali loro, in cui tutto si fa per ricomporre i dissidi. Eppure sono costretti ai margini della nostra società, visti come esseri primitivi. Sono falegnami, lavorano i metalli, amano la musica e l’intrattenimento, ma vengono messi ai margini della nostra società. Storicamente è sempre stato così, tanto che furono costretti a stare fuori dalle città, a andare nelle foreste e questo aumentò l’idea di loro come selvaggi. Infatti hanno avuto lo stesso destino degli ebrei nella cosiddetta soluzione finale di Hitler. I progetti a loro favore sono in realtà ipocriti e non cercano di valorizzare la loro cultura e il loro modo d’essere. Non hanno una patria in cui tornare, un territorio da amare: loro patria è l’esilio, cioè lo spazio creato per loro dalla nostra xenofobia, verso cui, al massimo, possiamo avere una certa pietà. Invece dovremmo provare a vivere insieme, nel rispetto reciproco. Ma, sempre, interviene il sospetto nei loro confronti. Occorre rispettare i loro diritti, non esercitare verso di loro la nostra pietà che li tiene comunque ai margini.
La professoressa Katz segue un progetto, di cui l’Ungheria è il paese leader, che cerca di contrastare l’esclusione e la discriminazione dei Rom. Ma, purtroppo, esclusione e discriminazione sono intese come politiche per sanare fatti di delinquenza e non si muovono grandi passi nei governi d’Europa per affrontare concretamente la questione dell’inserimento dei Rom entro le società dei diversi Paesi.