Una promessa nascosta nel cuore del nostro tempo
Come Maria Paola Azzali, Presidente del Tonalestate, aveva annunciato nella sua presentazione all’edizione appena conclusa, il Convegno dedicato alla riflessione sui genocidi non intendeva essere una pura denuncia, sebbene le testimonianze e gli interventi abbiano inevitabilmente sollevato una chiara voce di condanna; si è trattato di compiere un’azione civile per conoscere, per ricercare un pentimento, per aspettare e domandare il compiersi di una promessa chiusa nel cuore degli uomini e nascosta nel mistero del tempo. Un cenno di tale attesa è stato adombrato nell’edizione del 2010 quando si parlò di Fraternità, giustizia e libertà.
Raniero La Valle, ultimo relatore al Tonalestate 2011, non si è sottratto a tale ipotesi e ha esordito con alcune fondamentali domande. Finiamo la nostra storia con i genocidi? Possiamo solo deprecarli o dobbiamo cercarne le cause remote e prossime per liberarcene e metterci all’opera su un progetto di società indirizzato alla giustizia? Con quali politiche, fedi, ragioni possiamo vincerli per non limitarci a piangere davanti a un Male inestirpabile? Ha cercato qualche risposta accostandosi a cinque parole che giudica snodi ineliminabili da attraversare per cercare possibili alternative. Ha cominciato da “sacrificio”. Nella storia tale parola, mutuata dalle religioni, ha avuto un significato sinistro e orribilmente equivocato. Dopo il Concilio Vaticano II non è più possibile attribuire a Dio la volontà di ottenere sacrifici di espiazione. Il Dio dei cristiani non è un Dio arrabbiato, né l’iniziatore o il fautore della vendetta di sangue. Egli non è il Dio dei morti ma dei viventi e il Cristo ha condannato definitivamente, con il proprio sacrificio, ogni genere di torturatori. Un secondo passaggio riguarda il “diritto”: dopo la Shoa il genocidio è stato messo al bando e nel 1948 venne emanata dall’ONU la “Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio”. Si sentì la necessità di una parola normativa nuova per esecrare tale tipo di violenza ed espellerla dalla storia. Tale atto internazionale non rappresentò soltanto una novità giuridica ma costituiva una rivoluzione culturale. Avvenne cioè una discontinuità nella storia delle dottrine politiche, delle filosofie, delle ideologie che pensavano e tolleravano la diseguaglianza, per natura, tra gli uomini. La Convenzione non propugnò il venir meno delle specificazioni tra gli uomini e i popoli ma cercava di eliminare la logica di sopraffazione degli uni sugli altri, eco di quel primo annuncio di Paolo: “non vi sono più schiavi o liberi, uomini e donne, ebrei o gentili”. Avveniva una trasformazione “culturale”. Quarto termine: “politica”. A partire dalla scellerata concezione di Smith secondo cui la dialettica del politico sarebbe la distinzione amico/nemico si protrae nella storia l’idea della guerra come massima forza di attuazione di tale rapporto tra gli uomini. Quando il nemico diviene una gens compare il genocidio. Vocazione naturale della politica è, al contrario, la pace, essendo arte di far vivere gli uomini insieme, nella continua ricerca del bene comune. Oggi, nell’età del capitalismo realizzato, la politica ha ceduto a un nuovo sovrano: il denaro. Vita e morte dei popoli ne dipendono. Il denaro “richiede sacrifici” come ogni giorno ci ripetono. Infine, “religione”. Entro le religioni sono entrati concetti politici e norme di diritto discriminanti e la religione è diventata polarizzante perché divide in amici di Dio e suoi nemici e in tanto spacca l’unità umana anziché costituirla.
E’ tempo quindi di operare sulla cultura attraverso cui rilanciare la dottrina dell’unità umana e chiedere alla politica di domare il Dio denaro, ripristinare la democrazia e il pluralismo e far sì, da credenti, che le religioni ripensino il proprio ruolo salvifico. Non si tratta di questione etica, piuttosto antropologica, fondata sull’unità e volta a costruire un’unica umanità. Con una parola greca è l’agape.
E nelle sue conclusioni Maria Paola Azzali diceva: “Voglio immaginare che gli uomini si leghino sempre più fra loro per il fatto che si riconoscono esseri finiti (“ieri non c’ero e domani morirò: non mi faccio da solo”); e, da questo, sorga una solidarietà che faccia causa comune, perché mai più esistano impossibili genocidi, perché nessuno più muoia di fame, perché ciascuno abbia una casa comune, perché non ci siano più epidemie e così via. Avendo capito che siamo “esseri finiti”, dobbiamo rendere la vita umana non solo più lunga, ma anche più bella”.