Io è un altro
Marcello Buiatti, è professore ordinario di genetica presso l’Università di Firenze. Ha presentato, da scienziato, il tema dell “Aggressività, guerre, genocidi. Dalle cellule agli umani”.
Secondo il biologo è dimostrato che gli esseri viventi, dalle molecole alla Biosfera, sono fatti di elementi collegati fra di loro in modo armonico. Per sopravvivere, i sistemi hanno bisogno di cambiare per adattarsi, ma anche di mantenere i legami fra i componenti interni. Per questo, a ogni livello, si devono mantenere regole dinamiche di coerenza. Ci possono essere conflitti a tutti i livelli di organizzazione della vita, dalle cellule a comunità di organismi, ad associazioni di organismi diversi che ne formano uno complesso e possono esistere “discriminazione del diverso” in popolazioni di cellule. Così per gli animali. Ma per gli esseri umani è diverso. La nostra variabilità genetica è infatti molto più bassa di quella dei primati e l’ 85%-95% dei nostri varianti genetici è uguale nei diversi continenti per cui è del tutto impossibile distinguere geneticamente le etnie. Non abbiamo dunque sufficiente variabilità genetica per adattarci ai cambiamenti ambientali lasciandoci passivamente selezionare dall’ambiente. Per questa ragione, abbiamo inaugurato una nuova strategia di adattamento basata sull’utilizzo del cervello, capace di progettare e poi applicare i progetti all’ambiente esterno cambiandolo a nostro favore. Si può anche dire che la nostra evoluzione, da quando poche diecine di migliaia di noi, tutti africani, sono partiti per colonizzare la Terra, non è stata genetica come per gli altri animali, ma culturale, un metodo di adattamento ed evoluzione molto più rapido ed efficiente. Come negli altri organismi ci deve essere sempre un giusto equilibrio fra variabilità materiale e coerenza con regole della rete fisica, nel caso nostro la variabilità è di idee, pensieri, invenzioni, progetti , la coerenza è sociale, fra individui della stessa o di diversa appartenenza, e quindi la aggressività e le guerre sono anch’esse nettamente diverse. Dunque, le cause dei genocidi possono essere molto diverse, ma tutto comincia dalla discriminazione e cioè dal «razzismo» in senso lato e si è razzisti quando si attribuiscono ad un intero gruppo di persone, senza differenze fra individui, caratteristiche secondo noi negative che ci permettono di identificare il gruppo stesso come un nemico a quindi di combatterlo, emarginarlo, escluderlo, eliminarlo fisicamente. Il razzismo, fenomeno tipico dei periodi di instabilità e insicurezza economica e sociale, tenta di giustificarsi su base genetica perché questa permette di pensare che chi è diverso e, quindi, colpevole di esserlo, non può essere «risanato» dagli altri umani per cui, per evitare il peggio, deve essere messo in condizioni di non nuocere e quindi cacciato, emarginato, ucciso, e gli deve essere impedito di riprodursi.
Il processo di adattamento subisce forse in questo nostro tempo il bisogno di un’accelerazione se è ormai condiviso il fatto che la storia contemporanea e lo spazio culturale di nuove identità prefigura ampi spazi di apertura verso un bene comune ma anche, tristemente, il prevalere, nella logica delle relazioni, dello scontro. E’ quel processo che abbiamo identificato come globalizzazione. Se ne è occupato Carmelo Dotolo, presidente della Società italiana per la Ricerca Teologica e Membro del comitato scientifico della rivista Euntes Docete e Ricerche Teologiche. La sua relazione ha indagato molti aspetti di tale mutazione nei rapporti tra i popoli: le ragioni che la rendono irreversibile (geopolitiche, ambientali, tecnologiche, di povertà globale, di diritti ecc..) i deficit, gli effetti contrastanti (tra cui l’omologazione/differenziazione). Ciò ha una conseguenza immediata sull’immagine di uomo e sulla sua vita. Per quanto inconsueta possa sembrare l’idea della diversità come condizione per la vita, essa rappresenta il movente culturale che spinge ogni uomo a interagire con l’ambiente ma ci fa anche constatare la nostra finitezza strutturale mettendoci di fronte all’assurdità di una certa idea di onnipotenza individuale o sociale. L’Altro è condizione della mia stessa esistenza e possibilità di sguardo libero sulla nostra contingente finitezza. Un tale passaggio di coscienza apre a possibilità più alte dell’umano e invita a una responsabilità personale e collettiva che non si arresta soltanto al livello della solidarietà ma esige un impegno politico ed economico teso a una lotta per il bene e la realizzazione di tutti e impone un cammino verso un dialogo interculturale. Ciò vale anche a livello delle culture e delle religioni.
La prospettiva è affascinante e fosca insieme, ma il fascino viene dalla speranza su un nuovo paradigma d’uomo. Il professor Marc Leclerc, scienziato e filosofo, è il Responsabile del progetto “Università e miseria” all’interno dell’azione di “A. T.D. Quarto Mondo”. Il suo contributo si occupa esattamente del manifestarsi dell’Uomo nuovo. “L’uomo nuovo” nella teologia di San Paolo in cui il sacrificio di Cristo abbatte il muro di separazione tra gli ebrei e i pagani, e quello nell’ideologia marxista che ha comportato il sacrificio di intere generazioni e la negazione della morte. Un terzo contributo su tale tipo umano viene da Albert Camus per il quale conta solo l’uomo vivente, mortale e sofferente, a cominciare dal più povero che conosceva in modo diretto vista la sua provenienza sociale. Il suo punto di partenza è un uomo straniero nel mondo, isolato in un mondo insensato. Occorre una rivolta contro la disumanizzazione del mondo e l’homme révolté impegna tutta la propria energia nel compito. Infine, aldilà della rivolta, vi è l’uomo fraterno, rivelato dai più poveri.
In parallelo con Camus, Padre Leclerc ha ricordato Joseph Wresinski. Ebbe un’infanzia simile a quella di Camus, ma a differenza di Camus, non perdette il linguaggio per avvicinare i più poveri. Nella Chiesa, Padre Joseph scopre la fraternità vera con i più poveri, e, in essa, l’uomo nuovo.
“Ricercare ora, con i più poveri, quello che ci aspettiamo, l’uomo nuovo già presente, ma velato, nascosto; abbiamo bisogno di loro per svelarlo, scoprirlo – e rispettarlo fino in fondo. Parliamo dell’uomo cui è affidato il compito di creare una società più umana capace di rispondere alla sete di dignità e di onore, per tutti. A cominciare dal più disprezzato. L’uomo dei dolori: “Ecce Homo”. “(…) per creare in lui, dei due, un unico uomo nuovo.” (Ef. 2, 16).”