Forti, chiare e consapevoli identità base del dialogo interreligioso
La società è inequivocabilmente pluriculturale e plurireligiosa. Siamo quindi quasi condannati al dialogo. Nonostante il tentativo scientista di dichiarare che la fede è incompatibile con la ragione umana, il Dio che si voleva congedato dalla nostra convivenza riappare nel dibattito pubblico. Come ha fatto Dio a rientrare nelle nostre società? Il cardinale Jean-Louis Tauran ha introdotto con questo interrogativo il tema del dialogo tra le fedi. “Grazie ai mussulmani!” ha risposto. Loro hanno chiesto spazio per Dio nella società.
Parlando di dialogo non si intende una semplice conversazione fra amici, piuttosto un pellegrinaggio, la ricerca di un linguaggio comune, l’onestà della esposizione della propria posizione, l’ascolto di chi accetta di prendere in considerazione parole e pensieri non suoi. Esso non ha come scopo la conversione, che è rapporto tra due libertà, e non è nemmeno sforzo di costruzione di una religione universale in cui ognuno rinuncia a sé, perché ciò porterebbe al relativismo. Identità, alterità, amicizia: questi sono i tre elementi per il dialogo interreligioso. Il Cardinale Tauran ha indicato quattro modalità di dialogo: della vita, nelle relazioni di prossimità quotidiane; delle opere, nella collaborazione in vista del bene di tutti; teologico, per capire in profondità le rispettive eredità religiose; della spiritualità, che mette a disposizione la ricchezza della vita di preghiera. Sono gesti semplici e possibili nella comune coscienza che Dio è all’opera nel cuore di tutti. E’ necessario mettere a disposizione di tutti un patrimonio che ha valenza sociale, che può contribuire alla pace, sapendosi ascoltare, stimare, essere giusti gli uni con gli altri in una società solidale. Questo è un grande contributo che i credenti possono dare alla società. Ma c’è uno spazio da recuperare, lo spazio della vita interiore: siamo super informati, ma non ci diamo il tempo del silenzio e della riflessione e ciò potrà aiutare ad accorgersi che “in questo mondo dell’effimero che ci siamo costruiti, tutti i ricercatori di Dio e dell’Assoluto possono aiutare i loro fratelli e sorelle in umanità ad entrare nell’indicibile mistero di Dio dove l’uomo è afferrato invece di afferrare, dove adora invece di ragionare, dove è conquistato invece di conquistare”.
Spesso frastornati e deviati da una superficiale comunicazione riguardo alle culture e alle loro tradizioni e, molto più, con una occhiata pregiudiziale sulle fedi, raggiungiamo convinzioni pericolose e false riguardo il comportamento degli uomini, con la sufficienza di pensare che prestare attenzione all’ascolto di ciò che è diverso da ciò che siamo non porterà molto lontano nelle azioni concrete. In questo senso l’intervento di Daniel Farhi, Rabbino liberale che vive e insegna in Francia, è un illuminante esempio di quanto ci sia da compiere nella conoscenza giusta e onesta della cultura giudaica. Farhi ha affrontato il tema della violenza contenuta negli scritti di alcuni libri della Bibbia che costituiscono i testi fondatori del giudaismo. Non ha negato che vi sono passi che portano in sé una carica di violenza abbastanza forte, tanto dal punto di vista del racconto (a cominciare da quel primo fratricidio tra Caino e Abele) e della legislazione (con la severissima legge del taglione) quanto dal punto di vista del rapporto tra il popolo di Israele e le nazioni dell’epoca biblica, rapporti tesi a proteggere Israele da tutte le influenze esterne assimilatrici o distruttrici. Ma, sebbene il testo sacro sia fondamentale per il giudaismo, esso risulta incomprensibile senza conoscere l’esegesi operata dal Talmud. Nelle due raccolte di discorsi dei rabbini, la Mishna e la Guemara, il Talmud tratta tutti gli aspetti della vita dell’uomo sulla terra. Attraverso di esso molto si è compiuto, entro la cultura giudaica, per attenuare una applicazione dei testi eccessivamente letterale e formalistica. Questo monumento letterario, composto da una decina di grandi volumi, contiene tutto il pensiero ebraico sulla Bibbia e riflette l’evoluzione del pensiero religioso del popolo ebreo che si è indirizzato a un’interpretazione moderatrice perfino della legislazione, cesellandone le motivazioni, l’applicazione, la finalità.
Tale cammino, compiuto nel corso dei secoli, ha provocato l’evoluzione del giudaismo verso la sua forma attuale. Essa è paragonabile all’evoluzione della coscienza umana. Nella sua forma biblica esso ha riflesso, pur cercando di canalizzarla, la violenza di una società tribale e crudele. Nella sua forma talmudica il giudaismo ha, attraverso l’interpretazione dei testi, e aprendosi alla civilizzazione (la filosofia greca e il diritto romano), elaborato un pensiero, una morale, una pratica religiosa e una giurisdizione che sono le primizie del giudaismo contemporaneo in cui la violenza è condannata per principio.
Il Professor Dalil Boubakeur individua nel dialogo tra le fedi l’indispensabile strumento per vivere in amicizia, come avviene qui a Tonalestate. Il Rettore dell’Istituto mussulmano della Moschea di Parigi ha scelto di guardare negli occhi il tema di questo anno. Una fame insaziabile e beffardamente sacra è frenesia attuale e dimostra come Dio sia dimenticato e sacrificato all’idolatria dell’oro, maledizione che sta all’origine di olocausti e stermini. La bellezza di questo metallo affascina le civiltà umane da sempre, tanto da essere considerato come portatore della luce divina. Le grandi religioni invece si sono sempre guardate dal venerare l’oro e le ricchezze individuali. La concezione della ricchezza nell’islam, per esempio, è teocentrica: tutto appartiene a Dio. L’uomo ne ha un uso temporaneo volto al garantire a ognuno dignitose condizioni di vita. Secondo il Corano nessuno è proprietario di ciò che possiede e tutto deve essere rivolto alla socialità, alla giustizia, alla condivisione, come dimostrato in diverse esperienze interne all’islam stesso. Il Ramadan, che in questo mese i mussulmani stanno celebrando, è un periodo di digiuno, riflessione, raccoglimento, preghiera ma al tempo stesso di condivisione.
Ricchezza e potere sono fattori apportatori di crisi: se desideriamo le ricchezze, come le concepisce oggi il capitalismo, ci alleiamo all’ingiustizia sociale, allo sfruttamento dei paesi poveri del mondo, fatti oggetto di colonizzazione, rapina delle risorse, distruzione dell’equilibrio ambientale e genocidi. Il tutto in nome di una economia virtuale che non ha riscontro con la realtà. La sete dell’oro porta a un mondo artificiale che vive ben oltre i propri mezzi e che mette da parte ciò che è più importante: l’uomo, la sua dignità, la sua morale, il Dio che lo salva. I ladri, quelli che ci hanno mentito, sono dei dannati, come scritto su una chiesa lungo il cammino verso Santiago di Compostela.