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Per una cultura della Pace

4 Luglio 2010 Nessun Commento

Al cuore del Passo del Tonale, sulle Alpi italiane, in questo che è stato dichiarato “anno internazionale delle montagne”, dal 28 luglio al 7 agosto, giunge puntuale, anche quest’anno 2002, l’esperienza di una breve vacanza, quella della “Compagnia”, cui partecipano persone di vari Paesi del mondo e durante la quale ciò che maggiormente affascina è proprio l’incontro umano fra studenti, universitari, giovani, professionisti, famiglie, volontari, responsabili di associazioni, popolazione locale e chiunque vi si aggiunga. Un valore di tale “Compagnia”, cioè di questa vacanza estiva in montagna, consiste anche nel porvi in mezzo un’esperienza culturale: normalmente, infatti, davanti alle circa 300 persone convenute, si presentano, a parlare e a discutere con loro, personalità del mondo artistico, letterario, religioso, scientifico, sociale o del volontariato: questa iniziativa si chiama, prendendo spunto dal luogo e dalla stagione, “Tonalestate”.
All’interno della più vasta vacanza o “Compagnia”, l’iniziativa culturale di Tonalestate si svolge quest’anno dal 30 luglio al 4 agosto. Suo scopo è offrire l’occasione di affrontare culturalmente, senza ambire a risposte definitorie e senza pretendere chiudere il discorso, la realtà di un mondo globale nel suo mutare; si intende offrire una traccia, ponendo domande che, a loro volta, rispondano proponendo altri e più acuti interrogativi.
Lo scorso anno, con il titolo di “2001 Odissea nell’umano”, Tonalestate aveva rivolto lo sguardo all’uomo e al suo senso di inadeguatezza; quest’anno, il tema scelto è quello della pace, parola che pronunciamo sullo sfondo dei drammatici eventi dell’11 settembre scorso, del clima di vulnerabilità personale e di ignota e intima paura che ne è scaturito e dello stato di guerra continua e terribili fatti di sangue che la nostra terra sta soffrendo.
Scegliere il tema della pace significa basarsi sulla convinzione che il male non ha l’ultima parola nelle vicende umane e che le immani sofferenze dei popoli e dei singoli devono interpellarci.
Desidero perciò illustrare il tema della cultura della pace in tre modi: attraverso la frase che abbiamo scelta, attraverso il titolo e attraverso l’immagine del manifesto.
La frase in primo luogo: essa è tratta dalla “Vita di Agricola” di Tacito.
Tacito, nipote di Agricola, ne scrive la vita per riabilitarlo davanti all’impero romano; egli racconta che, per fronteggiare Agricola stesso, andato in Britannia per conquistarla, il capo dei Britanni li incita contro i Romani, dicendo che essi, dovunque vadano, distruggono, violentano e saccheggiano, chiamando quello il loro “impero”: in tutti i luoghi, “dove fanno il deserto, dicono che è la pace”.
Mi sembra una descrizione che adombra anche il mondo contemporaneo dell’ambigua pace, mondo la cui realtà Tonalestate osserva perciò con uno sguardo culturale malinconico, cercando di toccare molti tra gli aspetti più tipici dell’avventura umana, come il rapporto di convivenza sociale tra gli uomini, i presupposti per una civiltà dell’integrazione e non di sfruttamento, la ricerca della ragione e la domanda della fede, la scienza e il cinismo tecnocratico, il dialogo interreligioso e i diritti umani, le ragioni della politica e dell’economia.
Ognuno di questi mondi e il mondo intero cercano una propria giusta pace. E ogni pace si potrà raggiungere accettando il dono della capacità di perdono, cioè nella speranza e nella lotta umana per una grazia da non ostacolare (con le parole di Montale: “un imprevisto è la sola speranza”), in modo tale che ci sia più difficile diventare indifferenti di fronte alla miseria, in modo tale che le distruzioni e le violenze non determinino il nuovo “impero” globale in cui siamo immersi e in modo tale che non ci sentiamo coinvolti nel chiamare “pace” il tranquillo soddisfatto deserto del cinismo umano, politico ed economico.
Ma, se lo sguardo di Tonalestate è malinconico nell’osservare la realtà, esso è anche illuminato di speranza: e la speranza viene espressa nel titolo: “Antigone non deve morire”.
Antigone è la giovane tebana che, in nome di una legge superiore, legge iscritta nella libertà (cioè nella ragione e nel cuore di ogni uomo), si trova a essere (fino al rischio di tutta la propria vita terrena, fino al sacrificio della propria giovane esistenza, fino alla dedicazione di tutta se stessa) un’isola di resistenza contro la legge di Creonte, cioè degli uomini al potere e dei loro editti positivi e interessati. Ella esprime il valore primario di un mistero ultimo e di un fondamento definitivo nei confronti di ogni legge umana positiva. Il paragone con lei serve per scoprire, nella corsa del mondo contemporaneo, le piccole isole di resistenza umana che possono e potranno lottare per un futuro terreno più vero.
L’atteggiamento di Antigone di fronte alla realtà del potere, realtà oggi in continua regressione, e di fronte all’“io” di ognuno di noi ci fa consapevoli dell’inevitabilità di una lotta; e, allo stesso tempo, ci rende coscienti di un’illuminazione immediata di fronte alla bellezza della libertà; queste consapevolezze convergono con l’urgenza della società e della cultura (soprattutto dopo i fatti dell’11 settembre 2001 e dopo il clima di “guerra terroristica” e di “terrore assassino” che ne è conseguito) per restaurare il mosaico di una pace umana vera.
A questa urgenza Tonalestate intende, nei suoi limiti, collaborare. E vi collabora, appunto, costruendo e vivendo questa manifestazione culturale, la quale grida che “Antigone non deve morire”.
Dire che Antigone “non deve” morire può sembrare, oggi, un imperativo immotivato. Ma questo “non deve” desidera esprimere una coscienza di libertà in Antigone, la quale “non può” tradire la propria libertà. Il verbo “dovere” è, oggi, dato che mancano libertà e affetti, cioè compiti cui dedicarsi, il verbo imperativo più abusato. Un potere che non guardi al mistero dell’uomo si basa infatti su leggi e sottoleggi e decreti e commi morali positivi, costruiti “ad hoc” (da un potere il cui imperativo è, appunto, “tu devi”). Questo nostro “non deve” (“Antigone non deve morire”), invece, non vuole esprimere obblighi né imperativi militareschi; vuole soltanto essere la forma icastica della dichiarazione di identità di chi, per di più sacrificando sé in mezzo all’orrore e in mezzo a tutti i mali del proprio popolo e della propria stirpe, emerge, come Antigone, di una purezza eccelsa, con una logica non determinata dalla tattica né dalla strategia politicante della situazione. La frase prosastica suonerebbe dunque così: “Se noi non abdichiamo alla nostra piccola isola di resistenza umana, neppure l’Antigone che è in noi morirà”.
Purtroppo, però, sembra che Antigone sia già morta nella terra dell’impero odierno, dove l’uomo è valutato soltanto sulla sua stabilità rispetto al dollaro (o all’euro): Creonte, il potere maniacalmente legato a se stesso e a ogni tipo di guerra che incuta terrore o sospetto o paura, vincerà (poiché ogni suo oppositore è, indiscriminatamente, segnalato come “terrorista”); ma soltanto temporaneamente vincerà.
La vittoria del potere è temporanea, perciò apparente. Il potere vince soltanto temporaneamente, perché, in nome di una speranza non oppressa e in nome di una misericordiosa compassione assolutrice, la vita e il mistero di Antigone (cioè dell’uomo; e di ogni uomo) dimostrano la pietà, conseguenza terrena di una paternità ultima. Il potere imperiale sta vincendo soltanto temporaneamente, proprio perché questa “pietas” non è morta e non morirà mai sulla terra. Il mistero che costruisce ogni nuovo uomo che nasce è un mistero e un dono di misericordia che sta vincendo, poiché in noi persiste e “resiste”; e la dimostrazione del fatto che vincerà e che sta, ora, in noi, sulla terra, già un poco vincendo, è testimoniato anche da questo nostro piccolo gesto di “Tonalestate”.
In Antigone che compie, nella creazione di Sofocle, quel suo gratuito gesto, si rivela la capacità di un’azione (veramente poetica e, perciò, totalmente creativa) che non è soltanto sua, poiché esce dalla logica politica o puramente terrena di rivalsa, di nuova giustizia che crea ingiustizia e di vendetta; quel suo gesto è propriamente un dono: il dono di essere messa in grado di “farcela”, fino all’espiazione personale (un’espiazione che, per me cristiana, diventa immagine di Gesù), a uscire dalla logica del potere. È ciò che ha detto, forse unico, il Papa, parlando, anche a proposito dei poteri statali e politici e giuridici, di logica di giustizia indissolubile da logica del perdono.
Infine, dopo avere tentato di spiegare la frase e il titolo, desidero commentare l’immagine del manifesto di quest’anno: si tratta del particolare di un’opera di Marc Chagall, “Su Vitebsk”.
Il dipinto di Chagall, custodito oggi a Toronto (assieme ad altre due edizioni, una a New York e una a San Pietroburgo), richiama congiunturalmente la pace a motivo del fatto che un’opera “Study for ‘over Vitebsk’”, una prova dei tre dipinti “Su Vitebsk” (Chagall ne ha lasciate varie prove), è stata trafugata in giugno dello scorso anno dal museo ebreo di New York, con la dichiarazione che sarebbe stata restituita quando ci sarebbe stata pace tra israeliani e palestinesi.
Ma quell’avvenimento contingente non deve oscurare il fatto che tutta l’arte di Chagall, il quale era ebreo, promana “pietas” e pace. Chagall è un ‘’artista senza scuola’’, anche se la critica preferirebbe inquadrarlo nelle categorie di un’appartenenza rigida a scuole; già nel 1914, Guillaume Apollinaire descrisse Chagall come un ‘’artista estremamente versatile, capace di realizzare pitture monumentali’’, anche se ‘’non si preoccupa di nessun sistema’’; la sua opera non si integra facilmente alla storia (era nato nel 1887 ed è morto nel 1985): piuttosto, egli integra la storia alla propria opera; forse, questo è il segreto della grandezza atemporale della sua arte, intatta nonostante le vicissitudini del tempo; egli stesso, che era di origini russe (di Vitebsk, appunto, nella repubblica di Bielorussia), dichiarò ‘’Questa è la mia anima. Cercatemi qui’’, mentre diceva ‘’Qui ci sono i miei quadri’’. Ricco di evocazioni misteriose, Chagall ci ha lasciato un’opera le cui radici risalgono alla terra natale e a una cultura che gli ha permesso di esprimere la tragedia vissuta dal suo popolo ebreo. Chagall fu il maggiore di nove fratelli; imparò la pittura a Vitebsk da Yehuda Penne e, a 20 anni, andò a San Pietroburgo, dove studiò nella scuola imperiale di belle arti; poi, cambiò scuola, andò a Parigi, tornò a Vitebsk dove lo sorprese la prima guerra mondiale, partecipò alla prima esposizione di arte rivoluzionaria a Pietrogrado, andò a Mosca dove gli affidarono le decorazioni per il teatro di arte ebrea, abbandonò Mosca e tornò a Parigi, nel 1937 si fece cittadino francese, nel 1941, a motivo della seconda guerra mondiale, lasciò la Francia e si diresse a New York, invitato dal Museo di Arte Moderna, e, nel 1948, tornò in Francia.
Non ho citato a caso alcune tappe della sua vita: in esse, possiamo notare qualcosa della figura dell’ebreo errante che appare nel nostro manifesto; l’ebreo errante cammina qui tra i tetti come, altrove, volano in cielo il gallo musico, il maiale con la testa di donna, il flautista o i due innamorati; ma, qui, non si tratta di un grande circo gioioso e pieno di colori: qui, la figura dell’ebreo errante è, anche se positiva (contrariamente alle diverse tradizioni), di un magico realismo triste: è immagine del dolente peregrinare personale di Chagall, peregrinare che include quello dell’uomo, chiamando alla compassione per la sua miseria nella sua grandezza. Ed è anche su questa “compassione” umana profonda che trova fondamento la pace.
Ecco: ho cercato di dare, in sintesi, il significato della cultura di pace di questo Tonalestate 2002, durante il quale, anche quest’anno, la riflessione desidera essere una piccola lotta di speranza dell’umanità.
Accanto ai Britanni, ad Antigone e all’ebreo errante di Chagall, altre figure e immagini aiuteranno in questi giorni ad abbozzare il volto di quell’uomo che si desidera isola di umana resistenza al potere e all’omologazione obbligata. E, così, voi e noi, protagonisti del piccolo Tonalestate (che rimane comunque interno a una vacanza, in cui non si trascurano le passeggiate, i monti, i parchi, la storia locale, le feste e i cibi tipici), potremo peregrinare e, camminando (con l’origine in quell’Abramo che partì “senza sapere dove andava” o nel vivere cristiano o, più generalmente, stando al cuore di ogni uomo e dell’umanità), sorvolare tempi e luoghi, eterni ricercatori di noi stessi, per sempre e ripetutamente giungere al luogo dal quale credevamo forse di doverci rendere autonomi, come dichiara Dante: “En la sua volontade è nostra pace: ell’è quel mare al qual tutto si move, ciò ch’ella cria e che natura face”.

di Maria Paola Azzali

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