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La Rivolta

4 Luglio 2010 Nessun Commento

Da quell’inizio dell’opera loro a Babele, gli uomini, in un principio entusiasti costruttori di una città della quale in memoria portavano il ricordo già distorto e utopistico, hanno fatto troppa esperienza dell’incapacità – tanto forte da considerarla voluta da un dio, che si sarebbe opposto al desiderio del cuore umano – di capire il prossimo e generare un popolo. E’ forse a causa di questo ripetuto fallimento che l’uomo d’oggi è stanco, tanto da accogliere con giubilo ogni nuova piccola macchina, costruita da minuscole formiche in camice bianco, che sia capace di eliminare un’ulteriore quotidiana fatica, una di quelle quotidiane fatiche che ancora obbligano ad alzare lo sguardo. Solo si domanda il prezzo del nuovo sollievo a un’umana fatica quotidiana: è infatti unicamente con denaro che si paga quel quid che promette un po’di riposo in più. L’uomo, oggi, sta seduto, abbraccia le sue ginocchia, più negligente che se “pigrizia fosse sua sirocchia” e dice al passante: “Or va tu, che se’valente”.

Sotto l’apparente movimento frettoloso delle caotiche città all’americana, coi ponti che s’innalzano a ospitare tante piccole automobili di cui sappiamo il nome, mentre degli uomini no, e che incanalano il fiume di biciclettine lunari, una dietro l’altra nella pista ciclabile, c’è il silenzio di chi è stanco e non sa più lasciarsi prendere per mano e c’è il sorriso del Belacqua dantesco, che alza la testa, visto che deve farlo, per deridere chi cammina. In questa vita il cui senso è lontano nella memoria, l’unica parola che esce dal di dentro libero di chi non ci crede più, né agli dei né ai padroni, è una parola che in molti hanno amato e che ora pochi amano, quasi una parolaccia, come vorrebbero farci credere i maestri di scuola, ed è la parola “rivolta”. La rivolta è rivolta all’uomo, che dovrebbe distruggere la negligenza sorella di pigrizia, che dovrebbe dichiarare la guerra all’inerzia. Ma la rivolta oggi è segreto di pochi, e a dominare è la guerra, alla quale il giornale però dedica solo la pagina 12, dopo lo sport, mentre le bombe al fosforo cadono brucianti, in prima pagina, su uomini il cui valore è minore di un carico di scarpe, borsette, gonne, oggettini di lusso, artigianato esotico e caro come il petrolio, il cui smercio, ci assicurano, eviterà la catastrofe di una povertà la cui minaccia ci ossessiona. Tanti dei sono morti: ne resta uno solo, il dio mercato, che è un giove intoccabile perché potente e cambia spesso di umore. Suonano a festa le campane quando un indice che i più non capiamo è aumentato; c’è lutto nel venerdì nero delle cadute di borsa. I sussulti del mercato raggiungono la stanchezza greve, e giustificata, di tanti cuori stanchi, per i troppi secoli di inutili sforzi nel costruire l’austera città del sole.

E come un tornado, le parole di Nietzsche hanno raggiunto gli occhi arrossati e le anime assetate dei giovani che, catturati dal canto di sirena del Zaratustra europeo, hanno deciso, a differenza di Ulisse, di gettarsi nel mare profondo, in cerca di silenziosi abissi in cui forse incontreranno il senso di vivere. Però altri, meno audaci e più civili, non sanno nemmeno riconoscere che una sirena canta, e van dietro a mamme e papà, per ammazzarli o per esserne cullati nella dolce morte del benessere personale. Gorki ci ha insegnato che il popolo ha un’anima grande: ma adesso i più non hanno popolo. Sradicati dal popolo, assomigliano troppo a coloro che, dai palchi di antico cemento, premevano sull’imperatore per dar morte a un poveretto di gladiatore che non aveva il fascino di Ben Hur, o che, osannando contenti le staccionate papali, davano fuoco a Giovanna d’Arco o a Giordano Bruno. I rivoltosi, quelli che la rivolta non sanno descriverla ma la vivo-no, hanno la pelle color della terra e gli occhi capaci di passioni innocenti e sovrane. Honoré Daumier ha dipinto l’essere capace di rivolta. Non conosciamo il suo nome: è l’anima di un popolo in cui un essere umano, umilmente acceso di vigorosa responsabilità, si fa promessa. Daumier coglie il momento decisivo, che non appartiene solo al 48 delle rivolte, ma ad ogni uomo che, guardando la realtà con occhio puro, afferma, contro tutto il male dell’inerzia, il suo desiderio di bene.

Un momento decisivo, che potrebbe essere corrotto, se quella figura illuminata fra gli altri, non fosse però insieme agli altri. L’anonima figura del quadro ha il nome di ciascuno di noi, almeno di quelli che non si innalzano su quei pochi che si fanno popolo, ma hanno il coraggio di starci in mezzo, e di compiere il gesto, sicuro, semplice e significativo, che invita a mettersi in cammino. Quella figura in rivolta potrebbe chiamarsi Abramo che, insieme alla moglie, alla sua gente e al suo gregge, si mette in cammino verso una terra sconosciuta. Potrebbe chiamarsi anche Gesù, perché l’innocenza che trapassa quegli occhi bendati dalle palpebre non è la superdonna o il superuomo che si autosupera e si innalza, ma è una figura umana tra la sua gente, “che pensa al suo cammino, che va col core e col corpo dimora”. E’parte di gente che si appartiene, che ha un compito comune, perché ha voluto decidere. Una scelta che non incita a discorsi da un pulpito (come altri quadri dell’epoca descrivono la rivolta), ma spin-ge a compiere un gesto, che tutti riconoscono, che tutti riconosciamo e capiamo. E il cuore si riempie di allegria e speranza, ma anche di coscienza profonda del dolore e della solitudine che il cammino di rivolta comporta, un cammino che non vuole imporsi ma sì opporsi all’inerzia, un cammino nel quale però non si decide di essere nemici nemmeno degli uomini inerti, un cammino in cui la rivolta, che è nome femminile, alza la mano, perché gli sguardi di chi attende un cenno possano alzarsi.

Per il Tonalestate, (che anche quest’anno ci troverà uniti in quella Compagnia il cui fascino è l’incontro umano fra le diverse personalità compromesse nel loro quotidiano con ciò che dicono, e gli studenti, universitari, giovani, professionisti, famiglie, volontari, responsabili di associazioni, popolazione locale e chiunque vi si aggiuga), l’uomo nuovo è il cristiano (recuperando così una bella parola antica, quando un uomo si chiamava “un cristiano”), un povero cristo che sa bene che l’ideale del superuomo è un’illusione, un uomo che sa il sapore del lavoro di tutti i giorni, che sa il valore dell’amicizia, che condivide il pane con l’affamato e la speranza con l’assetato, che sa che non ha tutte le risposte, che, spesso, al contrario, non sa proprio cosa sarebbe conveniente dire o fare, ma compie il gesto – ponderato, saggio, pensoso e fiducioso – di chi ha anche il coraggio, nella coscienza del mistero della grandezza e meschinità umane, di invitare a mettersi in marcia.

Come abbiamo visto fare dal nostro caro Giuliano, morto sole alcune settimane fa: per lui, che ora vede meglio di noi i frutti duraturi della rivolta, per tutti coloro che subiscono la guerra in occidente, per tutti i giovani e adulti che ancora sperano contro ogni speranza, per chi è qui con noi e per chi non è riuscito a raggiungerci e avrebbe voluto farlo, il nostro Tonalestate è fatto da donne e uomini in rivolta. La rivolta è un tipo di cammino particolare, molto simile alla montagna del Purgatorio dantesco: “Questa montagna è tale che sempre al cominciar di sotto è grave; e quant’uom più va su, e men fa male. Però quand’ella ti parrà soave tanto, che su andar ti fia leggiero, come a seconda giù andar per nave, allora sarai al fin d’esto sentiero: quivi di riposar l’affanno aspetta”.

di Maria Paola Azzali

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