ECCE MONEY
di Maria Paola Azzali
Grazie alla compresenza di personalità della cultura, di giovani, di professori, di studenti, di professionisti, di lavoratori, di famiglie, di volontari e di responsabili di associazioni provenienti da vari Paesi del mondo, cui si uniscono i turisti e la popolazione del luogo, si ricostituisce ogni anno il luogo di dialogo e di incontro che Tonalestate è. E, durante le giornate, personalità del mondo artistico, culturale, letterario, religioso, scientifico o sociale rivolgono al pubblico, e ne ricevono, domande che, di fronte alla nostra inadeguatezza a immaginare il futuro, si desidera giungano a più profondi e ultimi interrogativi circa l’uomo, il suo agire e il suo significato.
Tonalestate, ogni anno, affronta un tema che aiuti a sempre nuovamente conoscere il mistero dell’agire dell’uomo sulla nostra terra. E, infatti, il titolo permanente di Tonalestate potrebbe essere “Ecce homo”, ecco l’uomo: così, poi, anno per anno, lo si affronterebbe con uno spaccato interstiziale o specialistico di tipo diverso. Quest’anno, al posto di “ecco l’uomo”, Tonalestate si presenta con il titolo di “Ecce Money”: Ecco il Denaro.
E se, a proposito del denaro, ricorderemo, a Tonalestate quest’anno, anche Giorgio La Pira, che i politici chiamarono “poeta” (per emarginarlo da ciò che fu, un politico per la giustizia e per la pace), desidero qui citare un poeta di professione, Ezra Pound, per un suo gesto non poetico, ma politico. Egli aveva individuato la radice del male dell’occidente nell’usura, nella catena di quella che egli chiamava la “finanza usurocratica”. Si è cercato di indagare il pensiero di Pound per colpevolizzarlo o depurarlo dalle teorie filofasciste e dal pregiudizio antigiudaico dei tempi; ma la sua critica al sistema finanziario è stata totalmente sottaciuta. E, finita la seconda guerra, gli USA lo confinarono, decretandolo (in un processo che mai si celebrò) collaboratore del nemico, in un manicomio criminale a Washington per dieci anni, poiché, nel 1944, con lo pseudonimo di “Uncle Ez”, aveva osato trasmettere da Radio Roma l’invito agli uomini degli eserciti alleati affinché si dessero alla diserzione; diceva che essi erano l’incosciente strumento del dominio dell’Usura, del potere “usurocratico”. Il principale capo d’imputazione per condannare unilateralmente Pound fu l’essere andato contro il proprio potentissimo Paese, con l’incitamento alla diserzione; ma il suo discorso contro la divina Usura fu totalmente taciuto davanti a tutto il mondo.
Non ho citato l’episodio per trattare il denaro (come dicevano certi moralisti) come “lo sterco del demonio”, ma, al contrario, parlando dell’usura, per dire che sterco non è il denaro in sé; infatti, l’avido desiderio megalomane e ingiusto, l’imbroglio per fregare all’altro uomo e la cupidigia che vuole impadronirsi di ogni cosa sono “colpe” che appartengono all’uomo come tale (anche prima che il denaro esistesse). Certamente, la nascita del denaro ha facilitato (e, direi, incoraggiato) queste “colpe”. Per esempio, quando non c’era denaro, rubare un gregge (e la parola “gregge”, in latino, è “pecus”, parola dalla quale deriva la parola “pecunia”, che significa “denaro”) era un’operazione più difficile dell’equivalente moderna di rapinare una banca o dell’odierna di movimentare piratescamente i capitali da un Paese all’altro, da un settore all’altro, attraverso operazioni di scritturazione elettronica (senza muovere in modo reale il denaro, ma avendo comunqe il denaro come misura di valore). E riuscire a fare attraversare la frontiera al gregge rubato era più difficile che portare all’estero un pacco di banconote o, senza portare fisicamente il denaro, manipolare accrediti e addebiti fra enti di vario tipo, Paesi o “paradisi” fiscali (mentre chi ci va di mezzo sono i piccoli risparmiatori). E trovare un nuovo acquirente per un gregge rubato e già marchiato era più difficile che riciclare denaro sporco.
Il denaro ha ampliato nelle sue possibilità, progressivamente, fino all’universo intero, la cosiddetta “auri sacra fames” (sacra fame dell’oro), alla quale precede quella “sacra fames” che è l’umana e cupida egoistica avidità di beni materiali e di capitali, “sterco” dell’uomo. E non è perciò una considerazione peregrina affermare che, oggi, l’uomo (noi) è stato sostituito (siamo stati sostituiti) dal Signor Dio Denaro: si vale per quanti denari (dollari, euro, yen o pesos) si hanno, si ostentano, si danno o si producono.
E, per iniziare toccando l’aspetto più personale e comune della questione, non possiamo dimenticare che il denaro e il potere sono legati. I “principi” al potere possono legalizzare quelle “colpe” umane, tipo l’usura, cui desiderano dare libero sfogo; e, d’altra parte, siccome, per mantenere i “principi”, occorre il denaro (e siccome il denaro viene dalle tasse dei sudditi), il denaro-lavoro dei sudditi mantiene i “principi”, i quali, se i sudditi non pagano le tasse, inviano loro il “soldato” (non per niente, la parola “soldato” deriva da “soldo”). A questo punto, occorre dare denaro anche per mantenere il “soldato”: perciò, si impongono altre tasse ai sudditi. Il lavoro-denaro dei sudditi mantiene dunque i “principi” e i “soldati”. Il potere estorce il denaro che supporta il potere, mentre l’esercito e l’industria della guerra ci sono per sostenere il “principe” al potere.
Platone e Senofonte parlarono forse per primi di economia e di lavoro, poiché avevano presentato, probabilmente per la prima volta, un resoconto della specializzazione e divisione del lavoro; ma, per i suoi voluminosi ”Prolegomena” (The Muqaddimah), che sarebbero una specie di “introduzione alla storia” (e dei quali Arnold Toynbee disse che sono “una filosofia della storia che è, senza dubbio, la più grandiosa che una mente, in qualsiasi luogo o epoca, abbia potuto concepire”), Abd al-Rahman Ibn Muhammad Ibn Khaldun al-Hadrami, di Tunisi, comunemente conosciuto come Ibn Khaldun, è forse da considerarsi il padre dell’economia (titolo che normalmente si attribuisce ad Adam Smith, che pure ha scritto centinaia di anni dopo Ibn Khaldun, il quale visse dal 1332 al 1406). Aveva solo vent’anni, quando entrò alla corte di Tunisi ed ebbe incarichi di amministratore, diplomatico, cospiratore, maestro e consigliere politico, fino alla morte, avvenuta a 74 anni. Khaldun era un osservatore penetrante; ebbe, se si può così dire, la sfortuna di vivere i tempi della decadenza dell’impero arabo, uno dei più brillanti della storia umana. Khaldun insisteva a prevenire contro i tipi di corruzione che conducono alla disgrazia pubblica. Diceva che, dove c’è terrorismo fiscale, c’è, state sicuri, un’enorme e mascherata corruzione al governo. Ci sono governi che, per le loro abitudini al lusso e per loro immotivate tradizionalistiche concessioni al fine di mantenere non posti di lavoro (che sono poi soltanto verbali) ma le cosiddette “sedie” o “poltrone”, cercano di equilibrare lo sfacelo pubblico (che stanno essi causando) attraverso tasse eccessive e attraverso il soffocamento dell’attività economica di massa. Khaldun così concludeva: “Il popolo paga questi eccessi dei governanti con il sacrificio del proprio futuro, poichè la civiltà, sostanza della nazione, va in rovina quando il popolo perde ogni incentivo”. Perchè devo impegnarmi a lavorare? Perché dovrei iniziare un’impresa? Per pagare tasse su tasse? Per essere schiavo di sindacati che non sono più a servizio sincero del lavoratore e del lavoro? Per non avere pace con dichiarazioni da fare ogni settimana? Per essere denunciato e messo alla gogna al minimo errore? Eccovi comunque una frase di Khaldun sul terrorismo fiscale e burocratico (qui parla di attacchi alla proprietà privata, ma possiamo anche riferirlo agli attacchi a quella piccola proprietà privata che sono le pensioni di chi lavora o ha lavorato): “Gli attacchi alla proprietà privata fanno sì che scompaia l’incentivo per ottenerla. Le persone giungono a pensare che l’avere proprietà li espone a un epilogo fatale: essere spogliati di tutto. La violazione del diritto di proprietà riduce ogni sforzo dell’uomo per ottenerla. Quando gli attacchi alla proprietà si generalizzano, si generalizza anche l’inattività commerciale. La civiltà si ferma. Tutto decade”. Il neoliberismo attuale ha eguagliato e superato il passato regime sovietico stesso; di fatto, infatti, i neoliberisti espropriano la proprietà privata (quella media e piccola, ovviamente; non la grande) non direttamente, ma in modo soft: attraverso tasse irrazionali e attraverso il disprezzo della piccola e media attività economica (regolamenti, leggi o leggine sempre nuove e accavallantisi, permessi per chiedere altri permessi, burocrazie, controlli intimidatori e così via). Ma, neoliberismo o sinistrismo, la questione del potere è la stessa: nessuno ha più fiducia in un cambiamento, essendosi anche la politica democratica (nata per un servizio) convertita in un grande affare: come possono pensare alle sorti dei più deboli e miseri e a un’economia che sappia distribuire equamente, se prendono trenta milioni di lire al mese?
Così, il lavoro umano (sia imprenditoriale che dipendente), impegno di libertà per cui dovrebbe valere la pena l’esistenza che ci è data vivere, decade dalla sua nobiltà; nessuno riesce a desiderare lavorare per un metro di misura così limitato. In più, il lavorare umano, la cui ricchezza è nel suo destino di energia dedicata a un progetto comune di cui si è coscienti, viene umiliato, reso vile, servile e venduto, perché sommerso dalla corsa all’oro imposta dal progetto al potere, la cui voce (che, attraverso i sofisticatissimi mezzi di comunicazione, diventa, in un batter d’occhio, “vox populi”) predica, al suddito che studia o che lavora, che, comunque, ciò che più conterà e conta, come scopo dello studio e del lavoro, è “l’economia” (leggi: “denaro”, “ricchezza materiale”). Un senso ultimo alla vita, la giustizia, la politica al servizio dell’uomo: tutto ciò sarebbe sovrastruttura, che potrebbe frenare il progresso, progresso ovviamente inteso soltanto come sviluppo dell’economia. La frase di Leopardi (“dipinte in queste rive/son dell’umana gente/ le magnifiche sorti e progressive”) è una testimonianza poetica dell’ingenuità umana circa il progresso: quel credere che l’uomo sia soltanto avviato progressivamente verso il bene (e non abbia, dentro sé, la possibilità di perdersi e danneggiarsi) toglie l’impegno della libertà, cioè della possibilità di scegliere tra il guardare al proprio “sterco” o alla propria umanità vera.
Ma c’è, a livello più macroscopico, un elenco interminabile di fatti che potrebbe illuminare, oggi ancor più chiaramente, circa la perversa logica il cui sviluppo il denaro facilita e promuove: basta iniziare dallo choc del fallimento fraudolento, nel dicembre 2001, dell’Enron (in cui quasi tutta l’amministrazione del governo USA è implicata), frutto di tali manipolazioni contabili che hanno fatto sparire 68 miliardi di dollari e licenziato circa 6.000 persone. E, dopo quel fallimento, i partigiani della mondializzazione globale liberale assoluta dissero che, in fin dei conti, la cosa si sarebbe rivelata positiva, poiché avrebbe permesso al sistema di correggersi e di eliminare le imprese irregolari, le operazioni fantasma e gli impresari “fuorilegge”; ma era una frottola: infatti, così non è stato e molti altri casi tragici per la nostra società (Tyco, Worldcom, Ahold, eccetera) sono continuati a spuntare. E, attorno a queste catastrofi provocate dal Dio (se la parola “dio”, tra gli uomini –a parte i teologi-, ha l’iniziale maiuscola, si tratta del Denaro), si agita il bosco immenso della multiforme finanza, dei giochi (li chiamano “giochi”) di borsa, della new economy e di tutto ciò che, per riflusso, crea l’interminabile ulteriore sottobosco comune ai mortali, sottobosco che prolunga e mantiene vivo ed emergente quello stesso “gioco” e che, anche al pensionato povero, dà quella grande voglia di “investire” che lo farà sentire parte del grande bello nuovo “gioco” e cioè che, insomma, lo farà sentire ricco senza mai esserlo.
Ancora, poi: il denaro nasconde le guerre che per esso si fanno, cela i traffici non certo nobili (come già degli schiavi) di “schiave” avvilite, occulta i commerci di armi sempre più sofisticate e distruttive, maschera lo smercio delle droghe e così via. E, per questo, Tonalestate dedica vari spezzoni di giornate alla pace (nella coscienza che solo la giustizia può generare la vera pace, la quale è salvaguardata dal perdono e non da una spirale di odio e di violenza che sembra destinata a non cessare mai), creando possibilità di confronto e di ascolto tra diverse realtà in conflitto (dalla Palestina all’Irlanda, dalla Cecenia all’Iraq, dai Paesi Baschi all’America Latina).
Guardare, dunque, la complessità dell’umano a partire dal denaro, dalla finanza, dal concetto comune di ricchezza o dall’avidità che (anche se molti imprenditori e politici sbandierano “l’impresa morale” e “l’etica negli affari”) la realtà dei fatti ci pone davanti agli occhi giorno dopo giorno significa, per Tonalestate, cercare di non fare dimenticare quale sia la ricchezza vera, quella per cui vale davvero la pena vivere. Insomma: l’intenzione di Tonalestate è quella di invitare alla ricerca di un altro metro di misura della ricchezza, metro di misura che non sia il denaro, né l’accumulare. Infatti, di fronte a questo modo di esistere in questo mondo, se dovessimo definire la ricchezza che si ostenta e quella cui si aspira (cioè, per semplificare: la ricchezza come è vista dai ricchi –ricchi in denaro- e la ricchezza come è desiderata dai poveri –poveri in denaro-), diremmo che essa è un accumulare (e tralasciamo il fatto che, ovviamente, dietro questo gioco accumulativo, non possono non esserci usura e sfruttamento).
E, in giochi sempre più degradanti o ascendenti (a seconda del punto di vista), questo accumulare sembra anche, molto, ingiusto e falso: ingiusto e falso perché l’accumulare è in assetto permanente di guerra contro il giusto distribuire; l’accumulare non è altro che la maschera gaudente che si pone sul volto tragico di una realtà negata: infatti, la realtà è l’accumulo per i pochi e la tragica indigenza per i molti. Mascherare tale realtà fa parte dello spettacolo civile e pulito che l’occidente ricco (in soldi) vuole dare, al mondo tutto, della propria ricchezza (ricchezza in soldi): e l’Europa si fa sull’euro, sul ”segno” dell’euro. Infatti, oltre che di accumulare, la ricchezza (quella dei soldi) ha bisogno di mostrarsi, ha bisogno di segni, di marchi, di marche di grido e di ultime mode: “lo spettacolo é l’altra faccia del denaro” lasciò scritto Guy Débord. Quindi, forse, dovremmo dire che una ricchezza umana più vera sarebbe quella di una giusta distribuzione anziché quella dell’accumulazione; la giusta distribuzione sarebbe la possibilità, per tutti, di condividere della natura vera, dei fagioli, del mango, del grano, del ferro, dell’alluminio, del petrolio, della terra, eccetera. È per esemplificare questo che Tonalestate si soffermerà quest’anno a parlare anche dell’acqua, bene comune da difendere come parte essenziale della vera ricchezza umana: ci sono potentissime ditte sfruttatrici dell’acqua; eppure, ancora oggi, oltre un miliardo e mezzo di persone non ha accesso all’acqua potabile, che non dovrebbe essere pagata, ma giustamente distribuita.
Il denaro è, in fin dei conti, un’immagine falsa (basta una grossa svalutazione, vedi Argentina, e, da ricco che eri, diventi povero), uno spettacolo, una forma senza sostanza, un essere contronatura: la natura vera e la realtà sono i fagioli, il mango, il grano, il ferro, l’alluminio, il petrolio, la terra stessa, gli uomini, il loro lavoro, la loro inventiva, l’aria che si respira, l’acqua e la natura tutta. Un metro di misura all’uomo e al suo lavoro non può essere dunque così limitato e parziale come il denaro e l’accumulare; il lavoro è tempo, energia, sacrificio, cultura e passione dell’unica nostra terrena esistenza: dev’essere fatto in nome di qualcosa per cui valga la pena vivere. E Tonalestate desidera leggere qualcosa di ciò nell’atteggiamento dell’immagine di Vermeer (“La lattaia”), immagine scelta per quest’anno: Tonalestate desidera vedervi le virtù umane e civili della dignità del lavoro. Ma, per questa condizione generale di corsa all’oro cui un potere costringe il lavoro umano, c’è purtroppo chi muore, c’è chi piange, c’è chi fa la fame, c’è chi si lamenta, c’è chi cerca di resistere: e tutto ciò viene considerato “disturbo”, sovrastruttura, danno all’economia; non è da fedeli “sudditi” il morire, né il piangere, né il fare la fame, né lamentarsi, né cercare di resistere: “il nostro piangere fa male al re” cantava Enzo Jannacci. E, invece di prendersela con l’avida “auri sacra fames” dei poderosi potenti accumulatori, il potere schiaccia i normali uomini che, di mani di cervello di cuore, lavorano; addirittura, li critica per condannarli quali avidi di beni materiali, tacciando di “sovversivo” o di “comunista” il lavoratore che vuole soltanto giustizia e si lamenta per i bassi salari.
L’intenzione di Tonalestate, intenzione che nasce da un gusto diverso all’esistere, è il tentativo di scoprire un altro metro di misura alla ricchezza degli uomini e dei popoli: la ricchezza vera non sta in accumulare, in denaro e nei suoi simboli. Occidente e oriente ebbero altri volti e simboli: quel volto dileggiato di cui Pilato disse “Ecce homo”, per esempio, Gesù di Nazaret. Ma alla new economy non può piacere un uomo crocifisso ingiustamente, come non può piacere lo chador che vela un’intimità femminile, come non può piacere il millenario invocare e mai conquistare dell’Abramo amico di un dio misterioso. L’ecce money, oggi, sostituisce, oltre al comune senso dell’uomo (“ecce homo”), anche l’ecce jesus, l’ecce christus, l’ecce deus. Il denaro è, ormai, dappertutto, il signor Denaro, il Deus di un decrepito e ricco (in soldi) mondo il cui potere vuole possedere e gestire l’universo intero.
Ci vorrebbe un nuovo, un altro, un diverso gusto della vita e della ricchezza per passare dall’accumulare al giusto distribuire: si tratterebbe proprio di una cosa dell’altro mondo, di un mondo “altro”. E la manifestazione di Tonalestate stessa, che si sviluppa internamente a una breve vacanza, desidera essere un piccolissimo segno di umanità diversa e positiva, capace di un nuovo gusto della vita e della sua ricchezza.